Politica

Ricetta per uscire dalla crisi: la Bce segua il modello Fed

Altro che indiscrezioni su cosa deciderà il 6 settembre la Banca centrale europea, con relativa cronaca delle baruffe tra Bce e Bundesbank. Altro che gossip su quando e a quali condizioni la Spagna chiederà aiuto ai fondi di stabilità europei e su chi (Troika? Biga?) e come dovrà vigilare sul rispetto di eventuali Memorandum of understanding. Per capire come gestire l'attuale fase della crisi dell'euro sarebbe bene che tutti andassimo, ancora una volta, a lezione dalla Federal Reserve. Analizziamo, punto per punto il discorso che il presidente Ben Bernanke ha tenuto a Jackson Hole, fra i monti del Wyoming, venerdì scorso. Davanti a più di 100 tra banchieri centrali ed economisti Bernanke ha, con umiltà, illustrato ragioni, costi e benefici della politica monetaria adottata nei 5 anni della crisi dalla Federal Reserve, la più importante banca centrale che governa la più grande economia del mondo, economia da cui la crisi ha avuto origine e da cui potrebbe venire la soluzione.
Come noto, l'inizio delle tensioni sui mercati finanziari risale ad agosto 2007, con lo scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti e la crisi dei mutui subprime. A questo seguì il fallimento di una delle principali banche d'affari americane, Lehman Brothers, il 15 settembre 2008. La reazione della Fed fu immediata: riduzione dei tassi di interesse tra 0% e 0,25% ed estensione dei prestiti alle banche. Tuttavia, ci spiega Ben Bernanke, «la crisi era così profonda che la Fed è dovuta intervenire con strumenti di politica monetaria non convenzionali». Bella dimostrazione di consapevolezza dei guai in cui la finanza privata aveva cacciato l'economia americana.
In particolare, al fine di perseguire gli obiettivi del proprio statuto - stabilità dei prezzi e livello massimo di occupazione - la Fed ha proceduto con due differenti tipologie di operazioni: Large-scale asset purchases (Lsaps), altrimenti noto come quantitative easing, vale a dire l'acquisto massiccio sul mercato primario di titoli del Tesoro americano e Maturity extension program (Mep), noto anche come operation twist, cioèla vendita di titoli a breve termine e il contemporaneo acquisto, per pari importi, di titoli a lungo termine.
Con riferimento al quantitative easing, la prima tranche è stata annunciata a novembre 2008 e si è conclusa i primi mesi del 2010 per un importo di titoli acquistati pari a 1.700 miliardi di dollari e la seconda tranche, iniziata a novembre 2010 e terminata a metà 2011, ha riguardato l'acquisto di 600 miliardi di titoli. Totale complessivo: 2.300 miliardi di dollari. Con riferimento all'operation twist, anch'essa avvenuta in due tranche, la Fed ha venduto titoli a breve termine (scadenza massima 3 anni) e acquistato titoli a lungo termine (scadenza da 6 a 30 anni) per 400 miliardi di dollari tra settembre 2011 e giugno 2012 e per 267 miliardi di dollari tra luglio e dicembre 2012 (l'operazione è ancora in corso). Totale complessivo: 667 miliardi di dollari. Cifre e tempistica che fanno impallidire le reazioni in casa nostra.
Risultato: da una serie di studi condotti da diversi economisti americani è emerso che il primo quantitative easing (1.700 miliardi) ha indotto una riduzione dei tassi di interesse sui titoli decennali del Tesoro americano tra 40 e 110 punti base e il secondo (600 miliardi) ha spinto al ribasso i rendimenti degli stessi titoli di ulteriori 15-45 punti base. Considerando anche le due tranche di operation twist, l'effetto cumulato è una riduzione dei tassi di interesse sui titoli decennali del Tesoro americano tra 80 e 120 punti base.
Questo perché «gli investitori hanno dovuto rivedere i propri portafogli e sostituire i titoli venduti alla Fed e perché l'intervento ha restituito fiducia alle istituzioni finanziarie e ai cittadini americani, stimolando gli investimenti e, di conseguenza, i consumi. Inoltre, Ben Bernanke ha tenuto a precisare che «da alcune simulazioni condotte dalla stessa Fed è emerso che con i due quantitative easing, del 2008-2010 e del 2010-2011, sono stati creati 2 milioni di posti di lavoro e il prodotto interno lordo degli Usa è aumentato di almeno il 3% in più».
Nonostante tali interventi, ed è questo il cuore del discorso di Bernanke, la crisi economica e finanziaria ha notevolmente rallentato gli effetti, in quanto i canali di trasmissione della politica monetaria sono risultati eccessivamente frammentati e non sempre efficienti. Punto centrale di grande onestà intellettuale da parte di Bernanke e punto centrale anche delle preoccupazioni del presidente della Bce Mario Draghi, già espresse il 2 agosto quando tenne a precisare come l'intervento Bce, anche con strumenti non convenzionali, fosse divenuto necessario. Evidentemente, in mancanza, o in supplenza, di una politica economica europea coerente.
Cosa dovremmo dire noi dell'area euro, con riferimento alle terapie sangue, sudore e lacrime imposte con somma improntitudine dalla Germania ai paesi sotto attacco speculativo? Esse non solo hanno acuito la crisi e la recessione, ma hanno finito col ridurre gli effetti delle misure nel contempo messe in atto dalla Bce.
Purtroppo gran parte della liquidità immessa nel sistema è rimasta nel circuito delle banche, principale destinatario della liquidità offerta dalla Fed. È stato il settore bancario, all'origine della crisi dei mutui subprime, della speculazione sui derivati e dei titoli tossici in bilancio. E che, dopo che i governi hanno contratto debiti per salvarlo, ha speculato contro gli Stati indebitati. Bella gratitudine. Viene facile mettere in rapporto queste affermazioni con quanto è successo in casa nostra, vale a dire con le due tranche di finanziamento agevolato della Bce alle banche dei paesi dell'Eurozona di dicembre 2011 e febbraio 2012, per più di 1.000 miliardi di euro, definito da molti analisti quantitative easing in salsa europea. E ricordare che tutte queste risorse sono rimaste ferme nel sistema bancario anche nel caso europeo, un po' per miopia ed egoismo delle banche, un po' per la dabbenaggine masochistica dell'Autorità bancaria europea (Eba) e delle regole di Basilea 3.
Ancora Ben Bernanke: «Negli Stati Uniti l'incertezza della politica fiscale (legata al dibattito sul fiscal cliff), ha ridotto l'efficacia della politica monetaria, portando, tra l'altro, a rivedere a ribasso le prospettive di crescita dell'economia. La Federal Reserve non può, e non deve, perseguire obiettivi propri della politica economica e fiscale e non può far fronte da sola ai rischi finanziari che corre il paese». Le banche centrali facciano le banche centrali e i governi facciano la politica economica.
L'analisi del presidente della Fed conferma quanto già sappiamo e ci dice anche che non è più tempo di rinvii: dopo la moneta unica occorre procedere con l'unione bancaria, e sistema unico di vigilanza; l'unione economica, con relativa redistribuzione degli squilibri macroeconomici (sia positivi sia negativi) degli Stati; l'unione fiscale, con regole di bilancio uguali per tutti; e l'unione politica, istituendo un rapporto diretto tra popolo dell'Unione e governo europeo. Per non parlare del bazooka di prestatore di ultima istanza che la Federal Reserve ha da sempre e che probabilmente la Banca centrale europea non avrà mai, causa le ossessioni inflazionistiche tedesche di weimariana memoria.
La lezione di Jackson Hole di venerdì può essere interpretata, dunque, come il de profundiis della politica economica europea a trazione tedesca. A quando altrettanta onestà, con relativo cambio di passo, da parte dei governanti e delle istituzioni europee? Le occasioni non mancheranno, a partire dalla riunione del Consiglio direttivo della Bce il 6 settembre; la decisione della Corte Costituzionale tedesca sulla legittimità del fiscal compact e del Meccanismo europeo di stabilità attesa il 12 settembre e il prossimo, fondamentale, Consiglio europeo, già in calendario per il 18-19 ottobre. Abbiamo bisogno di un'operazione verità. Ce lo chiedono i mercati, ce lo chiedono i cittadini europei. Ce lo chiede, soprattutto, il buon senso.

Sarebbe proprio ora di smetterla di farci del male.

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