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La scelta liberale sull'Ilva? Salvarla e limitare i danni

La scelta liberale sull'Ilva? Salvarla e limitare i danni

diParafrasando, ma senza tradirne lo spirito, le parole che si leggono in quell'autentico «Manifesto» del liberalismo moderno che è il saggio Sulla libertà (1859) di John Stuart Mill, si potrebbe dire che «quand'anche tutta la specie umana meno uno», fosse d'accordo su una misura di governo lesiva del diritto di un suo membro, l'umanità, nel conculcare tale diritto, non avrebbe una giustificazione maggiore di quella del singolo individuo a conculcare, «ove lo potesse», i diritti «dell'umanità tutta». Piaccia o no, è la filosofia liberale. È quella che John Locke consegnava ai saggi sul «governo civile», in cui sosteneva che l'unica ragione per fondare la comunità politica era la protezione della vita, della proprietà, della libertà dei cittadini; quella ribadita dalla Corte suprema degli Stati Uniti che dichiarava illegittimo l'esproprio del terreno di una vecchina, motivandolo con la pubblica utilità (sul terreno doveva sorgere un impianto in grado di dar lavoro a centinaia di operai).
È un universo dal quale sono lontane anni luce certe dichiarazioni di politici (di destra e di sinistra), di amministratori, di sindacalisti, di opinion maker, sulle azioni intraprese dalla magistratura per l'Ilva. Tutti invocano l'interesse pubblico, la rilevanza per l'economia della produzione di acciaio, il pericolo che il nostro Paese sprofondi ancora di più nella crisi. Motivazioni comprensibili, sotto il profilo umano e sociale, sennonché i diritti individuali vanno presi sul serio e non possono venir sacrificati sugli altari di nessuna divinità. Se le premiate aziende del gas di Buchenwald e di Auschwitz dessero lavoro a migliaia di SS-Arbeiter, non sarebbe certo la visione di tante famiglie gettate sul lastrico a trattenere il governo dalla loro chiusura. Non vorrei apparire blasfemo: un conto è «infornare» esseri umani per la loro razza, un conto è riversare polveri tossiche sulla popolazione, che non verrà contaminata al 100 per cento e che, in teoria, è libera di cambiare aria. Ma qui sono in gioco le motivazioni di un provvedimento: ci sono valori - il diritto alla salute - che non possono venir posti sullo stesso piano di altri - l'interesse collettivo a tenere in vita un'azienda. Con tutta la comprensione per chi perde il lavoro, è assurdo che si dica «meglio malati che disoccupati». Il liberalismo riconosce il diritto al rischio ma solo quando non coinvolge gli altri: se l'Ilva si trovasse su un'isola, gli operai potrebbero rivendicare la libertà di rischiare il tumore, ma se tale libertà minaccia la salute dei concittadini e comporta la contaminazione di diossine nei terreni agricoli il suo riconoscimento è fuori questione.
Pare sia molto oneroso riconvertire l'Ilva in uno stabilimento non (o assai meno) inquinante. E non si possono chiudere i battenti di un'industria così complessa da un giorno all'altro, in virtù di qualche irresponsabile provvedimento giudiziario. Teniamocela pure, ricorrendo a tutte le «pezze» possibili e senza risparmiarci alcuna misura destinata a diminuire il danno ambientale - posto che le perizie siano scientificamente ineccepibili.

Non nascondiamoci, però, che per la gente di Taranto i diritti di Locke sono carta straccia.

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