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Con lo scrittore sandwich il romanzo ha preso piede

Ci sono molti metodi per promuovere un libro, a parte scriverlo bene e azzeccare il titolo giusto: comprare inserzioni a pagamento sulla stampa, ottenere recensioni favorevoli da critici possibilmente amici, vincere il premio Strega, partecipare al Salone del libro di Torino, farsi invitare in televisione a Che tempo che fa da Fabio Fazio. Poi c'è il metodo prescelto da Devis Bellucci: girare a piedi l'Italia vestito da uomo sandwich. La copertina sul petto, la quarta di copertina sulla schiena, con il prezzo e il codice a barre all'altezza del culo. «In mezzo, invece delle pagine, io. Più di un libro e meno di un uomo. Una storia in cammino», si racconta poeticamente lo scrittore, che ha già all'attivo una raccolta di racconti, La memoria al di là del mare, pubblicata da Giraldi nel 2008, e tre romanzi, L'inverno dell'alveare, La ruggine e La sete dei pesci, editi da A&B fra il 2010 e il 2013. Il prossimo, in preparazione, s'intitolerà doverosamente Memorie di un uomo sandwich.
Chiariamo subito: il metodo Bellucci non funziona per niente. Cioè non fa vendere una copia in più. Ma è proprio questa circostanza a rendere davvero unico il suo inventore. Il quale, nonostante la conclamata inutilità commerciale dell'iniziativa, si ostina a girare l'Italia conciato in quel modo. Oddio, sarebbe piuttosto difficile trovare acquirenti nel gruppo dell'Adamello-Brenta, a 2.100 metri d'altitudine, o d'inverno sulla spiaggia di Sirolo, o in mezzo all'erba medica nelle campagne intorno a Monteriggioni, o tra gli spuntoni rocciosi e le ginestre di Capo d'Otranto. Perché questo fa Bellucci, da Vipiteno a Santa Maria di Leuca e da Trieste a Ventimiglia: va in cerca dell'Italia, non degli italiani. E a quel punto il libro da promuovere diventa solo un pretesto, anche perché il romanziere itinerante non può portarsi appresso né zaini né bisacce con dentro un po' di copie da smerciare brevi manu ai curiosi che incontra lungo la via.
Da questo punto di vista, Bellucci non corre pericoli: mai nessuno ha osato avvicinarlo. Né alcuno gli ha chiesto chi fosse, dove andasse, come mai portasse una copertina appesa al collo, di che cosa parlasse il libro. Talché, più che l'appellativo di scrittore sandwich, meriterebbe quello di uomo invisibile. In questi anni ha fatto test sociologici preziosissimi sull'incomunicabilità, o forse sarebbe più corretto dire sull'autismo spirituale, degli italiani: «Spesso mi levo di dosso il cartellone pubblicitario e lo stendo per terra, mettendoci sopra un candela accesa. L'ho fatto in luoghi frequentatissimi: davanti al Colosseo, di fronte al Palazzo Reale a Torino, in piazza del Plebiscito a Napoli. E riprendo la scena con la mia macchina digitale. Nessuno che si avvicini per chiedermi qualcosa. Soltanto una bimbetta l'ha fatto, accanto alla fontana di piazza Navona a Roma, ma è stata subito redarguita dalla madre, che l'ha strattonata via borbottando: “Con tutte le cose belle che ci sono da vedere, guarda te quello lì che si mette a fotografare un lumino!”. Nemmeno i controllori di Trenitalia che mi trovano in carrozza con il sandwich mi hanno mai chiesto nulla».
Ma poi accade un fatto molto strano: quella stessa umanità distratta che non s'è accorta di Bellucci, o ha fatto finta di non vederlo, si fa viva attraverso Internet, postando sul suo sito messaggi d'incoraggiamento e persino inviti a pranzo. «Una signora di Napoli mi ha scritto entusiasta perché in una delle foto con la candela si vedeva il suo bar. Però mica è venuta a salutarmi il giorno in cui ero lì in carne e ossa. Ne deduco che ormai la vita virtuale è più vera di quella reale».
Bellucci è nato a Vignola, nel Modenese, il 10 giugno 1977. All'anagrafe avrebbe dovuto chiamarsi Davis, come la coppa del tennis. Ma la madre, che si era innamorata del nome sentendolo gridare per strada, temette che quel figlio appena nato non fosse capace, da grande, di scriverlo e pronunciarlo nel modo corretto, per cui all'ufficiale dello stato civile chiese di italianizzarlo in Devis. Scrupolo inutile, giacché il ragazzo si è rivelato una mente eccelsa: maturità con 60 su 60 al liceo scientifico, laurea in fisica con 110 e lode all'Università di Modena, dottorato di ricerca in fisica teorico-computazionale. Lo attendeva una promettente carriera all'estero, come 8 dei 10 compagni che avevano dato la tesi con lui. «Ma sapevo che sarebbe stata una strada senza ritorno. Ho preferito prendermi una pausa di due anni dalla fisica e sono finito a lavorare nella biblioteca comunale di Vignola, dove ho letto tantissimo ed è nata la passione per la scrittura». Dal 2008 è assegnista alla facoltà d'ingegneria dell'ateneo modenese, dove si occupa di ricerca sui biomateriali per protesi ossee, a 1.450 euro mensili. Nella medesima università lavora, come ricercatrice di ruolo in chimica degli alimenti alla facoltà di agraria, la moglie Giorgia, che gli ha dato Maya, 3 anni a luglio, e Filippo, 10 mesi.
Fare il fisico all'estero la spaventava?
«Non direi, visto che sono stato in 42 Paesi, dagli Stati Uniti all'India, dal Brasile alla Bulgaria. Giro il mondo dall'età di 18 anni. Il regalo dei miei per la maturità fu un biglietto dell'Inter rail, 520.000 lire per un mese di viaggi in seconda classe sui treni d'Europa. Non avevo un soldo. Passavo le notti nei posti più assurdi».
Me ne indichi qualcuno.
«A Parigi nella sala d'aspetto di un pronto soccorso e in una chiesa vicino a place de Clichy, con il permesso del parroco, s'intende: il prete chiuse le porte e acconsentì che mi sistemassi in fondo alla navata nel mio sacco a pelo. Da Stoccolma fino a Bödo, in Norvegia, sul portabagagli di un treno. Nei boschi della Lapponia: grazie al sole di mezzanotte, d'estate non fa così freddo. Sul molo di Saint Tropez. All'azienda turistica di Edimburgo chiesi se potevano indicarmi un posto very cheap, molto economico. “La panchina del parco qui di fronte”, fu l'irridente risposta. Li presi in parola».
Non aveva paura di brutti incontri?
«Certo non fu come dormire in un cimitero della Val d'Orcia, il luogo più tranquillo che esista, se non vengono a svegliarti i carabinieri».
Non aveva paura neanche di quelli?
«Diciamo che non mi formalizzo. Nel 2007 a Panamá scoprii che senza il certificato di vaccinazione contro la febbre gialla non mi facevano passare. Me ne stampai uno falso in copisteria. Era scritto in italiano, spagnolo, inglese e dialetto modenese, con la firma del Dr. Nick Riviera, un personaggio dei Simpson».
Complicato girare il mondo senza documenti, oltre che senza denaro.
«Ho imparato a relativizzare il giorno in cui la Delta airlines mi perse il bagaglio e mi ritrovai a Città del Messico con uno zainetto che ho sempre portato per scaramanzia in cabina, contenente la Bibbia e una boccetta di Lexotan con cui suicidarmi nel caso in cui il comandante avesse annunciato un'avaria. Ho comprato sapone, spazzolino e dentifricio, due magliette, biancheria di ricambio e con quella poca roba ho vagabondato per un mese intero, fino a Chihuahua».
Da dove nasce l'ansia di viaggiare?
«Non posso dire che me l'abbiano trasmessa i miei genitori, un magazziniere e una venditrice ambulante che non sono mai stati all'estero e raramente sono usciti dalla provincia di Modena».
E dunque?
«Viaggiare è il modo migliore per conoscere le persone e capire come cambia la loro vita dopo una scoperta, una scelta, un incontro, un miracolo».
Avrà compilato una classifica. Che cosa la cambia di più?
«Sono stato anche tre volte a Lourdes come barelliere, a Fatima, a Medjugorje. Il miracolo fisico è raro, ma quello spirituale no. In tutti questi luoghi ho visto persone spente all'arrivo e luminose al momento di salutarci. In loro s'era riaccesa la luce della fede, della speranza».
Anche in lei?
«Io non posso dirmi credente. Sono stato cresciuto da un padre comunista e agnostico e da madre democristiana scarsamente praticante. Mi considero un grande cercatore. Se avessi fede, sposterei le montagne».
Quando si è scoperto la vena dello scrittore?
«A 18 anni, tenendo un diario dei giorni passati come volontario della Croce rossa a Glamoc, in Bosnia. La guerra era finita da tre mesi. Ho visto dal vivo i racconti di distruzione totale che mi faceva mio nonno Armando, alpino sul fronte greco. Dopo l'8 settembre 1943, fu arrestato come disertore. Riuscì a evadere. Rimase sepolto fino alla Liberazione in un buco a Casona di Marano sul Panaro, dove gli portava da mangiare una ragazzina di 14 anni, 13 meno di lui, che sarebbe diventata mia nonna Iris».
Perché fa l'uomo sandwich?
«Per disperazione. Appena pubblicato L'inverno dell'alveare, mi sono chiesto: come posso segnalarlo ai lettori? Non sono conosciuto, non ho un editore importante, non mi danno spazio sugli scaffali delle librerie. E così ho pensato: se la storia non ha gambe, devo trovare il modo per portare in giro la storia».
Pesa il cartellone?
«Non troppo, è un cartone plastificato. E comunque non ho bisogno di nient'altro, perché mia moglie è sempre venuta con me, fino a 10 giorni prima che nascesse Maya».
Il lumino posto sulla copertina stesa per terra nelle piazze che c'entra?
«La letteratura è una cosa fragile, che può essere calpestata, che ha bisogno di considerazione, altrimenti diventa inutile come una candela accesa di giorno. Attorno a questa metafora ho costruito un reportage fotografico sull'indifferenza, un ritratto degli italiani che schivano la letteratura nei luoghi più affollati del Belpaese. Lo stesso di Dante».
Dev'essere sfiancante questo suo giro d'Italia.
«Non è una passeggiata. Per conciliarlo con il lavoro si parte alle 18.30 del venerdì. Treno con cuccetta per le tappe più distanti. All'alba del sabato comincia la scarpinata, che si conclude la domenica notte, in tempo per salire sul convoglio che mi riporta a Modena. M'è capitato di raggiungere Matera in auto solo per vedere i Sassi e girare a piedi la Basilicata. Dedico a questo trekking anche le ferie. Mai tenuto il conto dei chilometri. Nei luoghi più vicini a casa vado direttamente a piedi. Mi ha rapito la bellezza del ponte di barche a Goro, nel Delta del Po, tanto che il romanzo La ruggine l'ho ambientato lì».
Ho letto che ha scritto un giallo in tre volumi con più di 100 personaggi.
«Sì. Mai pubblicato. L'unico personaggio inventato si chiama Rataplan, un cane dai poteri speciali. La particolarità del libro consiste nel fatto che l'ho scritto a quattro mani con un'amica, Eleonora. Un capitolo a testa, alternandoci, una settimana io e una lei. Bisognava riprendere il racconto dal punto in cui lo aveva interrotto l'altro e adattarlo al nuovo titolo, che cambiava ogni sabato».
Un manicomio. Per questo non l'ha pubblicato?
«No, è che nel frattempo Eleonora s'è fatta suora e nel monastero delle carmelitane scalze di Montegibbio, a Sassuolo, non ha potuto portarsi la sua copia. M'è rimasta solo la mia».
Ma lei viaggia per scrivere o scrive perché ha viaggiato?
«Buona la seconda. Solo in parte, però. Per me scrivere non è così essenziale. Più importante è andare, vedere, è quello il modo in cui mi autofecondo. Se non lo facessi, m'inaridirei. A volte m'interrogo: e se fossi tetraplegico? Penso a Emily Dickinson. Come ha visto il mondo lei, l'hanno visto in pochi. Eppure lo ha guardato dalla finestra della propria camera, dalla quale non uscì neppure per accompagnare al cimitero i genitori».
Le dà ansia essere ancora assegnista?
«Me ne dà di più il fatto che il contratto durerà ancora un anno e mezzo, dopodiché non so che ne sarà della mia vita. In realtà ho scelto la ricerca perché è svincolata dagli orari e dal cartellino da timbrare».
Come si definirebbe?
«Un esploratore».
Come il boy scout Matteo Renzi.
«Troppo ambizioso. Si presentò alle primarie del centrosinistra per la scelta del candidato premier dicendo che, se avesse perso, sarebbe tornato a fare il sindaco di Firenze. Invece non solo è diventato segretario del Pd ma ha anche sgomitato per arrivare a Palazzo Chigi, dopo che aveva giurato e stragiurato di non voler fare le scarpe a Enrico Letta. Di tutto ciò non s'è mai scusato, quindi non lo considero una persona limpida, degna della mia fiducia».
Però ha girato l'Italia come lei, dài.
«In camper. Mi piacciono i politici sobri anche nei comportamenti».
Sta parlando di Mario Monti?
«No, quello è sobrio come un iceberg. Per me la forma è la sostanza che viene a galla. I tortellini, serviti in un pitale, non piacciono a nessuno, giusto? Ecco, osservo Renzi e la forma non mi piace».
(693. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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