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Se il Colle attenta alla Costituzioneil commento 2

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Al tempo della prima elezione di Giorgio Napolitano alla Presidenza della Repubblica, in polemica con Giuliano Ferrara, sostenitore di Massimo D'Alema, sul Riformista di Antonio Polito, scrissi un articolo in cui prendevo le parti del «vecchio gentiluomo napoletano». L'attuale infornata di senatori, però, è un'ulteriore riprova che Napolitano è, sì, un «vecchio napoletano» ma, certo non è un «gentiluomo». Un gentiluomo, infatti, avrebbe dato prova di essere super partes, se non con la par condicio, almeno con una nomina (su quattro) di qualche prestigioso esponente della cultura liberale e libertaria (perché non Marco Pannella?). La sua scelta è stata ben spiegata da Unità e Fatto quotidiano: ora al Senato, per compensare il ritiro del Pdl dal governo delle «larghe intese», bastano solo 7 voti! «Peggio di un errore!», si potrebbe dire, parafrasando il famoso detto di Talleyrand, «è stato un delitto!». E almeno per tre ragioni. La prima è che i nuovi magnifici quattro rappresentano un segnale inequivocabile rivolto a quella parte minoritaria della sinistra che, non intendendo essere il braccio secolare della magistratura, nutre qualche dubbio sull'«atto dovuto», quello di espellere Berlusconi dal Senato. La seconda ragione riguarda l'opportunità di procedere alla nomina di ben quattro senatori a vita quando si avanzano fondati dubbi sul bicameralismo perfetto. Che parlamentari non eletti dal popolo possano essere determinanti nel dar vita a un nuovo governo o nel metterne in minoranza uno è un attentato alla democrazia, se democrazia significa «sovranità popolare». La terza ragione, infine, mi sembra la più forte e la meno rilevata dai pochi commentatori politici critici dell'inquilino del Quirinale. Il (discutibile) potere (articolo 59) conferito al presidente di nomina dei senatori a vita tra i cittadini italiani che abbiano «illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico artistico e letterario», ha senso unicamente se scienziati, letterati, artisti godono di un prestigio pressoché unanime nell'opinione pubblica. Nessuno avvertì come nomine di parte quelle di Arturo Toscanini o di Trilussa o dello stesso Eduardo (pure schierato a sinistra), anche perché i loro voti non erano determinanti per il governo o per l'opposizione. Ma c'è di più. Quando nel vecchio Senato del Regno veniva dato il laticlavio a letterati come Alessandro Manzoni, a musicisti come Giuseppe Verdi o a filosofi come Benedetto Croce, il senso dell'investitura stava nel riconoscimento di un impegno artistico e intellettuale tradotto in simboli rispettati e venerati da tutta la nazione. Manzoni non era solo l'autore dei Promessi Sposi ma di odi politiche e di scritti storici che i patrioti del Risorgimento sapevano a memoria. Giuseppe Verdi non era solo un grande compositore ma l'autore di cori famosi che avevano costituito la colonna sonora dei moti per l'indipendenza.

Croce era l'espressione più alta di un magistero culturale al quale si erano abbeverati liberali, conservatori e progressisti. I quattro neo-senatori di Napolitano quale ideale «cemento comunitario» possono rappresentare? Un Claudio Abbado, filocastrista e sessantottardo, ha qualcosa in comune con Arturo Toscanini che, col suo antifascismo, dimostrò al mondo che c'era un'Italia democratica che non si ritrovava a Piazza Venezia per osannare il duce?

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