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Se la magistratura sembra l'inquisizione

La prescrizione è una condanna per De Pasquale, il pm che per la seconda volta si rifiuta di appli­care la legge e avanza nella sua richiesta di condanna oltre i termini consentiti

Se la magistratura sembra l'inquisizione
Finalmente una sentenza di con­danna nel «processo Mills». Il da­to è evidente, plastico. So che il solito Travaglio dirà che una prescrizione non è un’assoluzione, e ricorderà che per un’analoga situazione (e anzi,me­desimo, benché separato, processo) il Tg1 di Minzolini, quando toccò a Mills, parlò di assoluzione e non di prescrizione. Gli si può ribattere che le condanne, giuste o sbagliate, sono tali soltanto nella sentenza definitiva della Cassazione, e che riconoscendo la pre­scrizione, il Tribunale rinuncia a pronun­ciarsi nel merito. Ma è proprio il pronun­ciamento della prescrizione che rappre­s­enta una irrevocabile condanna per Fa­bio De Pasquale, il pm che per la seconda volta si rifiuta, manifestamente, di appli­care la legge e avanza nella sua richiesta di condanna, oltre i termini consentiti dalla norma.

La presa d’atto della prescrizione non è una sentenza, ma una determinazione cronologica. E, quando si è fuori tempo massimo, è necessario interrompere le udienze.

De Pasquale ha cercato di dilatare a suo piacimento una scadenza che non è opinabile e che non può che essere preci­sa come le date di nascita e di morte. Ha, sostanzialmente infierito sul cadavere, mostrando un accanimento inaccettabi­le per un uomo di legge, pubblico ministe­ro o giudice che sia.

Con il riconoscimento della prescrizio­ne il Tribunale lo ha sanzionato, ma la condanna morale e spero materiale che gli tocca, viene da lontano, ed è stata pro­nunciata in modo netto e inequivocabile da un suo illustre collega. Lo abbiamo vi­sto qualche giorno fa in occasione del­l’anniversario di Tangentopoli, celebra­to in televisione da Giovanni Minoli. Nel­la documentazione e nelle dichiarazioni dei protagonisti a un certo punto si sente Di Pietro commentare il suicidio di Ca­gliari come una sconfitta e una vergogna della magistratura. Si trattava, come mol­ti ricorderanno, di una situazione oppo­sta a quella del «processo Mills», ma il pro­tagonista era sempre De Pasquale.

Nel caso di Berlusconi, pur certo della prescrizione, ha dimostrato una fretta in­diavolata; ha addirittura cercato di con­teggiare i tempi morti determinati, per l’alta funzione pubblica di Berlusconi, dal «legittimo impedimento», pur sem­pre riconosciuto dalla Costituzione.

Nel caso di Cagliari nessuna fretta. In­differente allo stato di prostrazione di un uomo in carcere, De Pasquale, come tutti ricordano, e come denunciò lo stesso Ca­gliari in una memorabile lettera, non ri­s­pettò la promessa di interrogarlo in tem­pi brevi e anzi andò in ferie per le vacanze estive lasciando l’indagato ad aspettare. In quella circostanza non si preoccupò dei tempi, diversamente percepiti da chi è libero rispetto a chi è agli arresti.

Sentendosi abbandonato, senza alcu­na certezza del suo destino e rispetto del­la sua persona, in balìa delle decisioni e degli umori del pubblico ministero, Ca­gliari si uccise.

Di Pietro, nella ricostruzione e nella va­lutazione dell’episodio, fu implacabile, non riconoscendo attenuanti a De Pa­squale, il cui comportamento aveva dan­neggiato, oltre che Cagliari, la magistra­tura. Con comportamento opposto, De Pasquale, nel «Caso Mills», ha rivelato un volto persecutorio della magistratura. Il Csm, come già fece, lo assolverà. Ma le pa­role di Di Pietro, giustizialista in servizio permanente effettivo, restano la peggio­re condanna.

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Le osservazioni precedenti su accani­menti e arbìtri di magistrati, si possono ovviamente estendere al sempre più in­quietante caso di Lele Mora, che viene trattenuto in carcere, senza condanna, oltre ogni ragionevole necessità relati­va ai rischi, per evitare i quali è stabilita la custodia cautelare. Reiterazione del reato: impossibile. Inquinamento delle prove: impossibile. Pericolo di fuga: monitorabile anche con gli arresti domici­liari.

Perché dunque Mora è in carcere? Può essere considerato pericoloso per la so­cietà? È giusto mortificarlo oltre misura? E se dovesse essere assolto? Non sarebbe giunto il momento di limitare la carcera­zione preventiva ai casi di pericolosità so­ciale o ai crimini di sangue o di terrori­smo, e limitare ai tempi tecnici (10-15 giorni per le necessarie verifiche contabi­li) la custodia cautelare per reati diversi, soprattutto amministrativi?

Infine mi chiedo: perché il mondo gay sensibilissimo ai diritti (penso alle batta­glie di Paola Concia e Franco Grillini) non si mobilita per la liberazione di un uo­mo i cui reati sono direttamente connes­si alle sue abitudini sessuali e che com­portano la disponibilità di molto dana­ro? Dobbiamo nascondercelo? E il mon­do gay deve vergognarsi della verità? Si sono forse vergognati di Pasolini?

Ed allora abbiano il coraggio di difen­dere Mora e di chiederne la liberazione. I suicidi di Tangentopoli dovrebbero esse­re sempre un monito.

Non è giusto uscire dal carcere con i piedi in avanti.

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