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«Sono ritornato dall'aldilà per salvare le vostre auto»

Ci sono due grandi misteri, uno gaudioso e uno doloroso, nella vita di Roberto Muriana, l'uomo che ha sconfitto i ladri trasformando le auto in cavalli. Il primo è che nessuno ha mai capito come possa un imprenditore che viaggia in Rolls-Royce Ghost o in Ferrari FF e che ha il proprio stabilimento a Bologna, in via Stalingrado, a non annoverare neppure un comunista su 102 dipendenti, a non aver registrato né un giorno di occupazione né un'ora di sciopero in 36 anni e a non essere mai stato costretto a confrontarsi con un sindacalista, dal momento che nella sua azienda non esiste neppure il consiglio di fabbrica. Il secondo non sfigurerebbe nel libro di Antonio Socci, Tornati dall'aldilà: «Nel 1992 ebbi un infarto con arresto cardiaco. In pratica ero morto. Aleggiavo sopra il mio corpo, potevo vedere i medici che armeggiavano intorno al petto per rianimarmi. Poi entrai in un tunnel bianco. Provai una sensazione indescrivibile di pace e dolcezza. Ricordo d'aver pensato: se questa è la morte, perché non è arrivata prima? Infatti da allora non la temo più. Mi portarono in sala operatoria alle 14.30. Ne uscii alle 22. Al mio capezzale, in rianimazione, arrivò mio fratello Giorgio, scapolo, quattro anni più di me. Ci adoravamo, mai una litigata o un insulto fra di noi, neppure da bambini. Prima di andarsene, si fermò a recitare una preghiera nella cappella dell'ospedale. Mia sorella Mariuccia, che lo accompagnava, lo sentì sussurrare queste parole: “Signore, prendi me invece di Roberto. Io non ho nessuno, ma lui ha moglie e due figlie, e una ditta da tirare avanti”, e ne rimase molto turbata. Tornati a casa, mentre lei gli stava preparando qualcosa da mangiare, Giorgio si accasciò sulla sedia. Morto all'istante. Infarto. Ed era sanissimo, nessun problema di salute. Non sono mai stato sulla sua tomba, perché lui vive qui, dentro di me», si porta una mano sul cuore.
Con queste premesse, si comprende meglio come mai Muriana, titolare di Identicar, abbia cercato per tutta la vita di corrispondere a un ideale di perfezione e continui a farlo anche oggi che ha 77 anni. Il suo brevetto ha protetto finora 50 milioni di veicoli in quattro continenti, 12 dei quali circolanti nella sola Italia. Su alcune vetture, come il milione di Citröen vendute dal 1996 a oggi, non si può rifiutare: è espressamente previsto dal costruttore, incluso nel prezzo. Un'idea all'apparenza banale, però bisognava pensarci. «Credo d'averla rubata a due ladri», riconosce con onestà. «Era il 1976. In quel periodo lavoravo ancora per la British petroleum. Mi trovavo in un pub di Londra con un collega della Bp, John Wilkins. Sentii quei due loschi figuri vicino a noi che confabulavano. Uno diceva all'altro: “Eh, certo che se le auto fossero marchiate a fuoco come i cavalli nel Far West, con il numero di targa su tutti i finestrini, per noi sarebbe finita”».
Muriana si mise all'opera e ingegnerizzò quell'intuizione: una pistola dotata di mascherina a caratteri e cifre componibili, collegata a un compressore che spara aria a 6 atmosfere miscelata con il corindone, cioè ossido di alluminio in cristalli di eccezionale durezza. «Questo materiale atossico ha la proprietà di abradere il vetro senza creare potenziali punti di rottura nelle molecole di silicio che lo compongono, il che evita le incrinature che verrebbero provocate da un punteruolo. Cinque minuti di lavoro, e parabrezza, lunotto e finestrini sono marchiati in maniera indelebile. Un formidabile deterrente, tale da ridurre del 70 per cento il rischio che ti rubino l'auto, dal momento che nessun malvivente si prenderebbe la rogna di dover cambiare sei diversi vetri di un veicolo, sarebbe diseconomico, senza contare che i carrozzieri complici verrebbero subito sgamati nel momento in cui ordinassero troppi kit sostitutivi». Soprattutto un deterrente efficace, che consentì una svolta nelle indagini sulla banda della Uno bianca dei fratelli Savi, i poliziotti corrotti che insanguinarono l'Emilia Romagna con 24 omicidi e 105 azioni criminali fra il 1987 e il 1994: «Dalla carcassa di una Fiat bruciata, della quale s'erano salvati solo i vetri con la marcatura Identicar, i carabinieri risalirono attraverso il nostro database al proprietario bresciano cui era stata rubata tre giorni prima».
Il ragionier Muriana, originario di Padova ma bolognese dall'età di 6 mesi, ha avuto per padre un poliziotto, Raffaele, che fu vicequestore nella città del Santo e a Venezia, e per madre una maestra elementare, Giovanna, che educò intere generazioni di scolari. Insomma, certi valori li ha assorbiti in famiglia e li ha trasmessi alle figlie Manuela ed Elisabetta, che oggi lo affiancano in azienda. L'inventiva no, quella fa parte del suo genoma, come ebbe modo di acclarare Attilio Monti, il leggendario petroliere, proprietario anche dell'Eridania, editore del Resto del Carlino e della Nazione, soprannominato cavalier Artiglio per il suo modo di trattare affari e giornalisti, come sperimentò Enzo Biagi, cacciato dalla direzione del quotidiano bolognese per aver inviato padre Nazareno Fabbretti, frate francescano finito nella lista Mitrokhin, a intervistare la madre di un altro prete scomodo, don Lorenzo Milani. «Se Monti mi avesse dato retta, da miliardario sarebbe diventato ultramiliardario».
E come?
«Ero suo dipendente. Gli proposi con largo anticipo sui tempi di sostituire i benzinai con gli impianti automatici. In pratica, m'era venuta l'idea delle pompe self-service. Mi diede del matto».
Quando arrivò alla corte di Monti?
«Nel 1955. Il padre di un mio compagno mi portò a Milano, al quartier generale di Sarom 99. Fui assunto all'istante. Ispettore commerciale a soli 19 anni. Sarei rimasto nel ramo petroli per i successivi 23. Ero così emozionato che passai la prima notte in bianco nella camera affittata in via Montenapoleone».
Cominciò da subito a trattarsi bene.
«Guardi che l'autogrill di Cantagallo lo feci io, con l'architetto Melchiorre Bega, allievo di Le Corbusier. Un giorno Monti mi convoca nel suo ufficio di Bologna, al 12 di via Irnerio, e mi dice: “Senti, mia figlia Marisa ha bisogno di una vacanza. Cercami un posto dove mandarla sulle nevi”. Io telefono al nostro direttore per l'Alto Adige, Riffeser, e gli espongo il problema. Quello mi risponde: “Mandala su, ho un figlio che s'è appena diplomato maestro di sci”. Era un ragazzo bellissimo. Morale della favola: Bruno Riffeser sposò Marisa e divenne il padre di Andrea, oggi proprietario del gruppo editoriale Monti Riffeser».
Anche il Cupido, ha fatto.
«Il cavalier Attilio mi voleva bene. Un sabato mi càpita in ufficio alle 6: “Burdèl, ma che ci fai qui a quest'ora?”. Lavoro, cavaliere. Il lunedì la segretaria Luisa mi consegna una busta. Apro. Era una lettera di Monti indirizzata al concessionario dell'Alfa Romeo, Zambonelli: “Si prega di consegnare al latore della presente una Giulia super 1600”».
Generoso.
«Diceva: “I fenomeni non esistono. Per fare carriera, devi metterci l'anima”».
E lei ce l'ha messa.
«Continuo a mettercela. Non faccio vita di società. Mia moglie Maria Angela, che ho sposato 45 anni fa, si lamenta perché la porto fuori solo a Capodanno. Alle 20.30 sono già a letto. Alle 4 mi sveglio e comincio a pensare. Se i miei dipendenti non mi vedono in azienda, come in questi giorni, si preoccupano. Non sanno che ho l'ufficio anche qui a Riccione, dove il medico mi ha spedito a tirare il fiato. In luglio mi trasferisco all'hotel Cristallo di Cortina d'Ampezzo e affitto una suite, così posso lavorare pure a Ferragosto. Mi porto dietro Daniela Fiorini, il direttore commerciale. La assunsi nel 1986 come impiegata perché era arrivata seconda ai campionati nazionali di dattilografia e stenografia. Andò a chiudere un contratto che avevo stipulato con Motta-Alemagna per marchiare le 1.000 auto della loro flotta aziendale. Riuscì ad aggiungerne 600 di un altro ramo d'azienda, strappando un prezzo migliore di quello concordato da me. Promossa».
Gli inizi come furono?
«Durissimi. Con la liquidazione ricevuta dalla Bp, circa 100 milioni di lire, depositai il brevetto di Identicar e aprii un negozio a Calderara di Reno che misurava 3 metri per 3, con una segretaria part-time. Dopo due anni avevo debiti per 800 milioni. Però era diventato l'unico antifurto riconosciuto dal ministero dell'Interno, tanto che oggi la nostra banca dati è interfacciata con il server della Criminalpol che ha sede a Settebagni, alle porte di Roma. Nel 1984 ho chiuso con le banche. Mai più avuto bisogno di un fido. Lavoro solo con i soldi miei».
Beato lei.
«Per dieci anni ho avuto l'onore di marchiare tutte le Ferrari uscite da Maranello. Poi, sa com'è, la crisi...».
Ecco, mi spiega come fa a resistere al crollo del mercato automobilistico?
«Dal 1982 ho fatto diventare i concessionari anche assicuratori. Mi sono convenzionato con 42 compagnie, dalle Generali alla Winterthur. Se lei ha l'Identicar, la Cattolica le pratica uno sconto del 50 per cento sulla polizza furto. Sono il più importante agente generale di Unipol-Sai, ma ho partnership anche con Genialloyd, con Tua e con l'inglese Am Trust. Posso contare su 1,3 milioni di vetture tatuate e assicurate con Identicar. Sono arrivato a fatturare 114 milioni di euro. Oggi un po' meno, 80-90. Ma ho assunto anche nell'ultimo anno, non ho mai licenziato nessuno né faccio ricorso ai contratti a tempo determinato, perché ritengo profondamente ingiusto che un giovane non sappia quale sarà il suo destino e non possa contare su un reddito sicuro per mettere su famiglia».
Sì, ma se in cinque anni le immatricolazioni sono calate del 32 per cento, mandando in fumo 25 miliardi di euro, lei avrà meno auto da marchiare.
«La crisi bisogna cavalcarla, innovando. Invece di ridurre gli investimenti, li ho raddoppiati. E così ho creato Identitag, primo esempio in Europa di digitalizzazione della carta di circolazione e della Rc auto. Da maggio hanno cominciato a montarlo Jaguar e Land Rover, con le quali ho stretto un accordo triennale. Tutto si basa su tre chip a radiofrequenza, il primo incollato al parabrezza, il secondo sul libretto di circolazione, il terzo applicato dal proprietario in un posto segreto a sua scelta dentro il veicolo. In ciascun chip sono immagazzinati marca, modello, numeri di telaio e di targa, cilindrata, potenza, data d'immatricolazione e generalità del proprietario. Al cliente viene consegnata una card collegata via web con Identicar. Ogni aggiornamento o modifica può avvenire solo attraverso uno scanner nei centri abilitati. In caso di furto, se il chip dietro il parabrezza viene staccato, cosa praticamente impossibile considerato lo speciale collante che usiamo, Identitag smette di funzionare. Se si tenta di strappare il chip dal libretto di circolazione, la carta si lacera. E il terzo chip, quello occulto, conserva le informazioni anche qualora l'auto venga clonata alla perfezione. I ladri non hanno scampo. Non solo: con l'applicazione Identibox per smartphone, il cliente ha la storia del veicolo e persino i suoi dati sanitari sempre in tasca».
Certo che dev'essere dura guadagnarsi da vivere contando sulla disonestà del prossimo.
(Ride). «È dura, sì. Ma io ragiono diversamente. Vendo deterrenti che danno diritto a sconti assicurativi. Una benemerenza sociale, di questi tempi».
Se le case automobilistiche si mettono a marchiare i vetri, è spacciato.
«Non avrebbero interesse a farlo. Le assicurazioni hanno bisogno dei ladri e così pure i produttori, visto che per ogni vettura trafugata ne possono subito piazzare un'altra. Purtroppo il mondo è metà da vendere e metà da rubare, non da comprare, come si diceva un tempo. Intendiamoci, la disonestà è sempre esistita. Da giovane mi correvano dietro per corrompermi e a me pareva normale rifiutare persino un caffè. Lei pensi che nel 1968, quando stavo per sposarmi e cercavo casa a Modena, mi offrirono una villa in regalo a condizione che avessi fatto aprire un distributore di benzina su un certo terreno. Ovviamente rifiutai. Ma la corruzione che vedo oggi è inenarrabile. Conosco colleghi che, se non sganciano, non lavorano. Se si viene a sapere in giro che sei un galantuomo, come minimo passi per stupido. Ti conviene esserlo in silenzio, solo per tua intima soddisfazione».
E lei ha la soddisfazione d'esserlo.
«Credo in Dio. So che la felicità non esiste, ma, se ami, vivi più sereno. Se pensi solo ai soldi, il cuore s'inaridisce. Non vorrei mai che la mia vita fosse un'ombra in cammino, un racconto narrato da un idiota, come scrive William Shakespeare nel Macbeth. Ho bisogno tutte le mattine di sogni, non di denaro».
(707. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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