Politica

Il tfr di Andreotti svuota la cassa del Senato

Un milione agli eredi del Divo Giulio. E la Camera vuole sfrattare Fini e Bertinotti

Un primo piano di Giulio Andreotti
Un primo piano di Giulio Andreotti

Roma - Un Tfr milionario, una liquidazione lasciata in sospeso e mai richiesta, una porzione di retribuzione differita alla cessazione di un rapporto di lavoro che per il «Divo» della nostra politica non è mai venuto meno. È una storia molto andreottiana quella che sta balzando agli onori delle cronache, rivelata ieri dal Mattino. Il senatore a vita già pluriministro e pluripresidente del Consiglio ha, infatti, maturato dopo 65 anni nei palazzi della politica una liquidazione da un milione di euro, per l'attività svolta a Palazzo Madama, e non solo. Quella cifra - che inevitabilmente colpisce l'immaginario e ricorda l'enorme biglietto di banca manoscritto del Signor Bonaventura - è destinata agli eredi di Giulio Andreotti, scomparso il 6 maggio scorso. C'è però un problema: il Senato temporeggia perché i soldi non ci sono e la liquidazione maturata da Andreotti rischia di non essere esigibile. Secondo gli uffici di Palazzo Madama il sette volte presidente del Consiglio non ha mai chiesto anticipazioni del suo Tfr che per questo si è accumulato crescendo progressivamente. Se a questo si aggiunge la rivalutazione si arriva alla cifra record. In realtà la buonuscita dei parlamentari avrebbe lo scopo di «accompagnare» i politici nella transizione verso la vita normale - ovvero il ritorno a un lavoro - e permettere loro il reinserimento.

E questo non è certo il caso di Andreotti. Ma, spiegano da Palazzo Madama, più che un «caso Andreotti» c'è un «caso Senato». Un problema che dipende soprattutto dal più grande turnover mai verificatosi nella composizione dell'assemblea, con l'ingresso di duecento nuovi senatori e con altrettanti senatori in uscita pronti a battere cassa. Un fenomeno che ha tolto improvvisamente ossigeno alle casse dell'istituzione, provocando un «vuoto di tesoreria», anche se in teoria trattandosi di accantonamenti (attraverso il versamento dell'equivalente di una mensilità lorda annua) la copertura dovrebbe essere assicurata. «È un po' come se in una banca improvvisamente più della metà dei correntisti chiede di rientrare dei propri conti correnti. Qualche problema e qualche scossa di assestamento è inevitabile», spiegano.

Se al Senato i funzionari della Tesoreria sono impegnati a far quadrare i conti, alla Camera ci si prepara a una nuova offensiva contro i residui privilegi degli ex presidenti. Il vicepresidente grillino, Luigi Di Maio, infatti, nella prossima riunione dell'Ufficio di presidenza vorrebbe cercare di segnare un punto anti-Casta a favore del M5S imponendo una sforbiciata al trattamento riservato a due ex big di Montecitorio: Fausto Bertinotti e Gianfranco Fini. Come racconta Ettore Colombo sul Mattino, il primo gode di un ufficio di 120 metri quadri a palazzo Theodoli-Bianchelli, all'angolo tra piazza del Parlamento e via del Corso. Nella stessa location trova sistemazione anche Gianfranco Fini - che si reca lì quasi tutti i giorni - anche se soltanto in 66 metri quadri. L'obiettivo è quello di far tornare Montecitorio nel pieno possesso di questi uffici per girarli poi a deputati «operativi». Non bisogna dimenticare, infatti, che nel novembre 2010 la Camera prese la decisione di recedere dal contratto di locazione del palazzo cosiddetto «Marini 1», con effetto dal primo gennaio 2012. Una scelta dettata da ragioni di risparmio che ha provocato qualche problema nell'assegnazione degli uffici ai deputati. In realtà già nella scorsa legislatura ci fu un taglio drastico dei privilegi degli «ex», con la chiusura della Fondazione Camera e l'abolizione delle auto di servizio.

Ora per i due ex presidenti potrebbe arrivare il colpo finale.

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