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La vera sfida di Renzi è a governo e Quirinale

La svolta di Matteo: niente avanspettacolo e scenografia povera. E il Pd si prepara al terremoto

La vera sfida di Renzi è a governo e Quirinale

Chi si aspettava un Renzi battutaro e cool sarà forse rimasto deluso, come deludente è stato senz'altro l'impianto scenico, ridotto a un palchetto rotondo illuminato male (e qui si sente la mancanza di Giorgio Gori, che secondo le leggende di Cologno imparò dal Cavaliere in persona a mettere le luci negli studi televisivi così da farli sembrare più grandi e più belli). Ma la sostanza politica, tanto più all'indomani di una crisi sventata e dell'ennesimo patto di non belligeranza con il presidente del Consiglio, è dinamite pura. Almeno per il regimetto che intorno a Letta e a Napolitano si è venuto cristallizzando in questi mesi, e che minaccia di trasformarsi in un assetto di governo stabile, dove «chi vota non conta, perché poi ci si mette sempre d'accordo».

Berlusconi è alle prese con i suoi problemi giudiziari mentre il Pdl è dilaniato da una dura guerra interna, Grillo ha congelato otto milioni di elettori senza dare loro nessuna prospettiva, il Pd di Bersani ha perso voti e iscritti e i suoi consensi, ormai, vengono soltanto da statali e pensionati: Matteo Renzi inaugura la sua corsa alla segretaria disegnando un panorama politico e umano di macerie e di fallimenti. Non sono più questi gli avversari da battere, non sono più Berlusconi e Bersani gli argini che - secondo Renzi, s'intende - impediscono il cambiamento e imprigionano l'Italia nella stagnazione. No, oggi l'ostacolo da superare, l'ultimo argine da abbattere ruota intorno all'asse Letta-Napolitano: è questo il tappo, è qui lo scontro vero se si vuole «cambiare verso» al Paese.

Quando Renzi urla che «saremo le sentinelle del bipolarismo» non ce l'ha con l'inciucio denunciato a suo tempo dalle anime belle della sinistra antiberlusconiana, ma con l'operazione neocentrista che - vera o presunta - sta dietro l'Alfetta a guida quirinalizia. Il sindaco di Firenze non colpisce le larghe intese, che peraltro ha sempre considerato una necessità transitoria, ma l'idea che intorno alle larghe intese possa formarsi quella «nuova Dc» intenzionata a emarginare la sinistra ex Pci e la destra berlusconiana e leghista per consolidarsi come blocco di governo (e di potere) senza alternative.

È per questo che i punti politici salienti del discorso di Bari sono altrettante cannonate indirizzate al governo e al Quirinale. A cominciare dalle due questioni più scottanti all'ordine del giorno: la riforma elettorale e l'amnistia. Sul primo punto, Renzi non scopre le carte ma stabilisce un principio: chi vota deve poter scegliere direttamente e immediatamente chi governa, e chi governa deve poterlo fare da solo perché, poi, dovrà risponderne. Ma la vera novità sta forse nel metodo, più che nel merito: diventato segretario del Pd, Renzi chiederà di spostare alla Camera il dibattito sulla nuova legge elettorale: qui, dove il Pd da solo ha la maggioranza, si dovrà cercare un accordo con Sel e Scelta civica da offrire poi, se lo vorranno, a Pdl e M5S. In altre parole, il perimetro della riforma elettorale non coincide con quello della maggioranza (come fortissimamente vogliono Letta e Napolitano), ma semmai prefigura l'alleanza con cui il sindaco di Firenze conta di presentarsi alle elezioni.

Sull'amnistia il colpo non è meno forte: «Un clamoroso autogol», dice Renzi, non perché, come pensano ossessivamente i mozzaorecchi, potrebbe aiutare Berlusconi (peraltro mai citato in più di un'ora di discorso), ma perché è in sé diseducativo, e dunque sbagliato, «svuotare le carceri ogni sette anni» senza far nulla fra un'amnistia e l'altra per limitare la detenzione preventiva, depenalizzare alcuni reati, migliorare la condizione carceraria. C'è naturalmente, in questa posizione, una strizzatina d'occhio all'elettorato di destra, per certi aspetti simmetrica all'uscita di Grillo a favore della Bossi-Fini: ma c'è anche, e soprattutto, l'accusa a Napolitano di cedimento a quella «cultura del condono» che è tra le cause principali della stagnazione italiana.
Il Pd «curioso» e «coraggioso» che Renzi ha appena cominciato a delineare ieri a Bari è per ora una nebulosa indefinita, e il passaggio da rottamatore a statista resta ancora incerto e ricco di chiaroscuri. Ma il terremoto sta arrivando e, almeno per ora, il futuro segretario non sembra incline ai compromessi: fanno bene ad avere paura di me, dice. E poi: «Non si sale sul carro, il carro lo si spinge».

E il carro, prima o poi, investirà il governo.

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