Politica

Viaggiare in salotto con Monti capotreno

Stazione Centrale, marciapiede numero nove. L'ES 9615 di Trenitalia parte per Roma con quattro minuti di ritardo, accumulati nella tratta Torino-Milano. Da qualche mese su molti treni Eurostar non ci sono più solo due classi, come in tutti gli altri treni, bensì quattro: Standard, Premium, Business ed Executive.
In questa parte del mio itinerario, quella che va da Milano a Roma, viaggerò in Executive, costo del biglietto duecento euro tondi, che però comprendono diversi servizi esclusivi.
Inoltre duecento euro dovrebbero rendere inutile la presenza di un capotreno (si fa per ridere) visto che per duecento euro tutto dovrebbe andare bene, tutto è obbligato ad andare bene, niente Eurostar persi nella torrida oppure gelida campagna romana o lodigiana, fermi come la Sfinge di Giza in attesa del cosiddetto materiale di ricambio, tra svenimenti, assenza cronica di informazioni e bottigliette d'acqua, appuntamenti persi. La classe Executive occupa la prima metà della carrozza numero uno ed è composta da otto poltrone veramente sontuose più una specie di salottino con sei poltroncine in fintapelle rosso tra il mattone e il magenta (un po' meno brillante del rosso-Eurostar) sistemate intorno a un tavolo pieghevole munito di console per qualsiasi equipaggiamento multimediale, che, aperto, dà al salottino l'aspetto di una piccola sala-riunioni.
Immagino che qui si svolgano solitamente (...)

(...) importanti sedute di questo o quel cda: Rai, Banca Intesa, Eni, a scelta. Oppure il Consiglio dei ministri. L'uomo executive infatti è sempre executive, anche in treno. Per questo la classe Executive si presenta comoda ma al tempo stesso tutta modellata intorno alle esigenze di chi fa girare la finanza, l'economia, il mondo. Qui siedono i bosoni di Wiggs della società italiana, che le infondono energia e massa.
Oggi però in Executive non c'è nessuno, nessuna riunione di consiglio in programma. Nessuno salverà l'Italia da questa postazione. Ci sono soltanto io, e la saletta riunioni è tutta per me. Avrei preferito starmene seduto sulla mia poltrona. Sono poltrone degne del re di Andromeda, in fintapelle color fumo di Londra, disposte a distanza siderale le une dalle altre e munite, oltre che di una serie di pulsanti che emanano una luce di un blu curaçao perlaceo, di un poggiapiedi che ci augura il buon riposo solo a guardarlo. Purtroppo la distanza tra sedile e tavolinetto estraibile non è siderale ma intermolecolare, e uno con la mia panza non lo può usare. Del resto, penso tra me, io non sono affatto un uomo executive, non reggo le sorti dell'Italia e, a differenza dei veri uomini executive, non frequento assiduamente la palestra.
Chi regge le sorti dell'Italia deve essere infatti fisicamente molto in forma, non può permettersi alcun sovrappeso o addizionale Irpef per il proprio colesterolo o scatto di aliquota per i propri trigliceridi. E la distanza tra la seduta delle poltroncine Executive e l'allegato tavolinetto è stata tarata, probabilmente, su questa precisa tipologia umana.
Eccomi perciò costretto in sala-riunioni. Il mio assistente di viaggio, diciamo pure il mio steward, fino a Roma si dedicherà soprattutto al sottoscritto, l'unico per oggi, su questo 9615, a disporre di biglietto da duecento euro. È un uomo alto e brizzolato e somiglia a Mario Monti, con la differenza che qualche volta sorride. Poco dopo la partenza, Monti mi propone una bella spremuta fresca d'arancia. Poi, vedendomi ben sistemato al mio tavolo di lavoro, rilancia l'offerta: vassoietto completo con prima colazione firmata da Gianfranco Vissani. «Gianfranco» per la verità è una mia illazione, perché la fascetta che avvolge il pregiato tovagliolo in puro cotone grezzo by Bellora, Milano (since 1883) reca solo la scritta «Vissani», e a giudicare dal contenuto del vassoietto servitomi dal gentilissimo Monti viene da pensare che Gianfranco Vissani potrebbe anche avere un fratello molto meno talentuoso, per esempio un Ermenegildo Vissani, o un Aureliano Vissani, che si sia assunto - magari all'insaputa del celebre fratello (cui i tavolinetti estraibili dell'Executive sarebbero vietati, come lo sono a me) - l'incarico, con relativo contratto, di presentare a Trenitalia un progetto di Vassoietto Imbandito.
Ahi, Vissani tarocco, quanto fai penare noi, popolo della classe Executive! Ahi Aureliano, ahi Ermenegildo, ahi Odescalco, ahi Brabazio Vissani! Eccovi cari lettori la composizione del vassoietto, o vissaietto, così potrete capire la costernazione di noi miseri duecentisti. Abbiamo: una spremuta d'arancia caldina; una confezione in vitro di Yoghurt marca «Sterzing-Vipiteno»; un paninetto al latte, freddo; un bicchierino modello finger-food con dentro del burro ghiacciato; tre focaccine con gocce di cioccolato, così gnucche da non riuscire, nonostante lo sforzo congiunto di tutti i muscoli del collo, a superare il confine tra laringe ed esofago; una coppetta con un'albicocca, una ciliegia e tre chicchi d'uva.
Nel vassoietto c'è anche una piccola rosa rossa un po' smortina, avvolta alla base dello stelo con la tipica carta stagnola, distintivo inconfondibile di tutti quegli indiani che tirano a campare vendendo rose rosse nei ristoranti o all'uscita degli stessi o dovunque due o più persone si trovino, ferme, sul marciapiede, a parlare.
Mesi fa ne vidi uno tentare di vendere questo stesso tipo di rose a un prete mentre benediceva una bara davanti a una chiesa. Gli cacciava il mazzo tra naso e turibolo, incurante della vedova in gramaglie, dei figli con gli occhiali neri e del carro Mercedes color azzurro-tinca, che secondo i tecnici Mercedes, non digiuni di teologia, è il colore del paradiso.
Intanto, fuori di qui c'è la Toscana con il suo paesaggio incomparabile, frutto di una collaborazione eccezionale tra Dio e l'uomo. Osservo i casali, i vigneti, gli olivi e i cipressi correre disperatamente via da me, «le convalli/ popolate di case e d'uliveti» scappano lontano, nemmeno il tempo di imprimersi sulla retina, e le viottole che serpeggiano sui crinali delle colline, con i loro trattori e i loro motorini, lasciano in me un triste senso di separatezza.
Ricordo i miei viaggi da ragazzo, su treni molto più lenti e scomodi, ma dove si potevano aprire i finestrini, l'aria del mondo circostante poteva entrare nella carrozza, così che tra il «dentro» e il «fuori» si stabiliva un rapporto, il treno era dentro il paesaggio, parte di esso, alla stregua dei gelsi e dei pioppi, de' colli e de' tetti. Mi rendo conto, però, che un viaggio lungo la dorsale italiana, da Milano a Napoli, non sarebbe più veritiero. L'Italia di oggi è scritta qui, in questa separatezza, in questo treno che corre dentro un tunnel talvolta reale talvolta virtuale, che c'impedisce, ammirando un casale toscano, di dire «io sono qui», o di telefonare a nostra moglie e dirle «ti mando un bacio dalla Toscana», perché in realtà noi non siamo mai in Toscana, nel Lazio o in Emilia, ma soltanto dentro un lunghissimo tunnel.
La verità sta qui, in questo treno dove il biglietto Milano-Roma può costare anche duecento euro (e non è nemmeno caro rispetto agli standard europei), dove un salottino scimmiotta le sale-riunioni e dove il sosia di Vissani firma vassoietti con panini gelidi, dolcetti immangiabili, burro ghiacciato e rose rosse appassite.
Questo è il luogo destinato a tutti coloro che sono sempre connessi, sempre in riunione, sempre in videoconferenza, sempre in procinto di prendere decisioni importanti. Perché non importa con chi ti connetti e perché, non importa se decidi il destino dell'Italia o soltanto quello dell'eroe del tuo videogioco, o del tuo avversario di poker online, ciò che importa è che tu sia connesso, sempre e comunque. Sul modello di questa malattia antropologica prende forma questo treno malato. E il cuore mi si riempie di strazio per tutta la bellezza che sembra voler fuggire via, lontano.
(1 continua)

segue a pagina 13

di Luca Doninelli

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