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"Io, nata senza papà e cresciuta già morta"

"Io, nata senza papà e cresciuta già morta"

Napoli - Racconta Mario Calabresi nel suo libro, "Spingendo la notte più in là", di aver salvato un ricordo, uno solo, del padre Luigi. Mario aveva due anni ed era sulle spalle di papà, in mezzo alla folla, ad ascoltare una banda. Quell’immagine, miracolosamente preservata e cullata nell’infanzia, trovò la cornice al ginnasio quando Mario interrogò la mamma. Gemma, aperto il suo fittissimo diario, gli diede la conferma: Mario e Luigi alla sfilata degli Alpini. Milano, 14 maggio 1972. Tre giorni prima che il commissario venisse ammazzato in via Cherubini.
Antonia Custra quel regalo non l’ha avuto e non poteva averlo: «Io sono nata solo il 1 luglio 1977, papà era già morto da un mese e mezzo, un colpo alla testa nel corso di una manifestazione sempre a Milano, via De Amicis. Io a differenza di Mario non ho mai visto papà». Era il 14 maggio 1977 e Antonio Custra era schierato con gli altri agenti del Terzo Celere. I Ferrando, i Barbone, gli Alunni battezzarono nel sangue gli anni di piombo e una parte di Prima linea. Un fotografo, appostato sotto gli alberi, scattò una foto di Giuseppe Memeo in mezzo alla strada, le gambe divaricate, la pistola impugnata a due mani: quella è l’immagine simbolo di una stagione di dolori e insensatezze. Ma quella è storia. Il binocolo di Antonia è puntato su un dettaglio: «Quel proiettile che uccise in un attimo tre persone: papà, la mamma, che da allora è un fiore appassito, io che sono nata già morta».
Trent’anni dopo, Antonia Custra beve un caffè sul lungomare affollato di turisti; ha i capelli biondi, tinti, e un sorriso caldo, la promessa di qualcosa che forse un giorno arriverà, ma le sue parole portano altrove: finora ha vissuto dentro un pozzo. Costruito con i mattoni dell’odio e della paura: «Mamma era al paese, a San Giorgio a Cremano, in vista del parto. Non risalì più a Milano, mi mise quel nome, Antonia, che mi ha schiacciato per tutta la vita, si lasciò andare, sempre in casa, mai un ristorante, mai un cinema, mai un’amica, neppure un viaggio anche solo a Napoli. Io sono cresciuta dentro una tenaglia: la paura, la paura di sapere, di conoscere quel che era successo a papà; l’odio, l’odio smisurato per chi quel giorno mi aveva tolto la famiglia, la possibilità di avere un fratello o anche solo una carezza. Ho passato trent’anni a rimpiangere il padre che non ho mai avuto, mi sono fidanzata a quindici con un ragazzo che era il surrogato di papà: la sera mi dava il bacio in fronte, rincalzava le coperte, usciva. Era un fratello e l’ho lasciato, ma il buco è rimasto».
Antonia si toglie gli occhiali scuri, sorride, manda giù il caffè, parla del suo corpo: una fisarmonica impazzita che si allarga e si stringe senza rispondere alla tastiera dell’intelligenza e degli affetti. «No, il mio corpo segue le folate dettate dalla fame di umanità: quando prevale l’odio, rifiuto il cibo e sono vittima dell’anoressia. Ora, fase contraria, mangio, mangio, mangio fino a scoppiare: è la bulimia. Devastante. Sono in malattia ma tornerò in Questura. Sono stata spazzina, la prima di Napoli, perché lo Stato all’inizio mi ha offerto solo una scopa, ora sono poliziotta. Come papà».
Antonia è rimasta nella sua foresta pietrificata fino a gennaio. «Poi mi ha telefonato Mario Calabresi, è venuto qui, abbiamo mangiato una pizza, mi ha parlato di papà, di via De Amicis. Mi ha dato un nome, un nome che io, chiusa nella campana di vetro, non avevo mai sentito: Mario Ferrandi detto Coniglio, l’uomo che uccise papà». Forse inconsapevolmente, perché i giornali avevano scritto che Custra era stato colpito da un proiettile calibro 6.35 e solo nel 1986 l’inchiesta bis, condotta da Guido Salvini, stabilì che il colpo mortale proveniva da una 7.65: quella di Ferrandi. «Le parole di Calabresi sono state una scarica elettrica. Ho cominciato a elaborare il lutto e insieme l’odio. Finalmente ho un nome da odiare: Mario Ferrandi. Vorrei incontrarlo e guardarlo negli occhi e dirgli che ha distrutto tre vite. Ora che ho dato un nome all’odio, devo potergli dare anche un volto. Chissà, forse così mi libererò un giorno di questi sentimenti avvelenati».
È il ventaglio delle libertà. Imprevedibili, come quelle di casa Calabresi. Luigi, nella pancia della mamma il 17 maggio 1972, spiega spesso ai fratelli il suo dolore: «La differenza è che papà non mi ha mai tenuto in braccio». Come Antonia. Gemma, invece, quando condannano gli assassini del marito comincia a piangere. Ma non per sé: «È per la figlia di Bompressi, oggi ha perso il padre».
Antonia Custra cerca di uscire da quel pozzo. Solo pochi passi: «Sono entrata nello studio, ho aperto la libreria, ho preso i diari di papà. Piano piano li leggerò». Intanto esprime un desiderio: «Letizia Moratti collochi una lapide nel punto in cui papà cadde. E lo ricordi col cognome giusto, non con quell’accento con cui è stato storpiato e oltraggiato dai giornali e dalle tv per trent’anni: Antonio Custra e non Antonino Custrà.

Papà è morto per i milanesi, è ora che i milanesi si ricordino di lui e di noi che non siamo più stati una famiglia».

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