Cultura e Spettacoli

Joan Miró, un poeta che dipinge fantasticherie

È un tripudio di luci e colori, che nessuno s’aspetterebbe dentro il severo Forte di Bard, in Val d’Aosta. Una sorpresa nella potente struttura da qualche anno diventata sede di mostre e eventi culturali. Sono le fantasticherie dipinte, scolpite e incise da Mirò che scintillano nelle sale avveniristiche del Forte, stretto tra i monti e la Dora Baltea. La mostra - Miró poème (sino al 1° novembre, catalogo edito dal Forte di Bard) - è insolita, non solo per il numero di opere esposte (192 tra dipinti, bronzi, ceramiche, disegni e libri illustrati) ma perché molte arrivano per la prima volta in Italia dalla «Fondation Marguerite et Aimé Maeght di Saint-Paul de Vence», con cui l’artista, morto nel 1983, ha avuto un lungo sodalizio.
Curata da Sylvie Forestier, con il contributo di Isabelle Maeght e Gabriele Accornero, il titolo allude al forte legame dell’arte di Joan Miró con la poesia. Ut pictura poesis dicevano gli antichi. E per lui era la stessa cosa. La pittura era poesia e la poesia il modo di evocare immagini con le parole. Sono poetici anche i titoli delle sue opere: Volo d’uccello al primo bagliore dell’alba, Gioia di una fanciulla davanti al sole, Il canto della prateria... «Quello che conta, è denudare la nostra anima. Pittura e poesia si fanno come si fa l’amore; uno scambio di sangue, un amplesso totale senza nessuna prudenza...» diceva Miró.
Le opere esposte, realizzate dal 1947 e il 1980, testimoniano il rapporto di amicizia instaurato dall’artista a partire dal 1947 con il gallerista Aimé Maeght, ma soprattutto permettono di penetrare nel mondo innovativo e sperimentale di un artista che, dopo un inizio nel 1915 (era nato a Barcellona nel 1893) come pittore figurativo, amante della materia scura e densa, e del suo mondo contadino, decide di distruggere tutto, pittura, scultura, disegno tradizionali, per tornare alla sola materia, che doveva parlare da sola. «Scavare, scavare molto profondo» era il suo credo, dopo il soggiorno parigino negli anni Venti del ’900 e l’incontro con le avanguardie. Insomma, come per dadaisti e surrealisti, valeva il gesto, il segno, proveniente dall’inconscio, bastava cominciare a scalfire una tela, un muro, un pezzo di legno e la forma emergeva spontanea. Proprio come faceva Leonardo ispirandosi alle macchie dei muri.
Così viene fuori nel 1925 Bleu, una semplice e pionieristica superficie blu, creata dalla sua mano, in cui Miró trova la libertà. «Un quadro, per me, deve essere come le scintille, deve abbagliare come la bellezza di una donna». Nascono decine di pitture su tela, carta, cartone, e altri supporti che cantano in libertà voli di uccelli, costellazioni, albe, tramonti fatti di macchie, virgole, strisce colorate come quelle dei bambini. Anche la scultura e la ceramica, cui l’artista si dedica dal 1944, rompe con l’accademia, scegliendo come protagonisti soggetti poveri e trattandoli con umorismo: due sgabelli diventano Monsieur, Madame, mentre i bronzi sono totem e stregoni, le superfici lisce o rugose, curate come quelle di un Cellini.


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