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Da Kunta Kinte alla Casa Bianca

Le battaglie, le persecuzioni, le conquiste degli eroi neri che hanno aperto la strada a Obama

Da Kunta Kinte 
alla Casa Bianca

C'è un luogo, alla periferia di Savannah, nel moderno stato della Georgia, che ancor oggi sembra essere scivolato, come un fiore essiccato, fuori dalle pagine del libro La capanna dello zio Tom. Quasi nascosto da maestose querce ornate dai festoni di Spanish moss, il muschio spagnolo, è una delle più antiche comunità afroamericane d'America. Ha un nome buffo - Pin Point - strade sterrate e un pugno di vecchi bungalow acciaccati con i tetti di lamiera. La gente che resiste qui, perlopiù vendendo peanuts bollite agli angoli delle strade o pescando i dolcissimi granchi azzurri per i ristoranti del centro, parla una lingua anch'essa buffa, il Gullah, figlia della contaminazione tra l'inglese dei vecchi padroni bianchi e il dialetto di origine africana dei loro antenati giunti su queste coste in catene, come schiavi.

Risulta quindi facile immaginare che cosa potesse essere questo luogo, questa comunità di discendenti del letterario mandingo Kunta Kinte, anche soltanto nel 1948, quando in una di quelle baracche venne alla luce un bimbo di nome Clarence Thomas. Il quale oggi, omone brizzolato, è uno dei nove membri a vita della Corte Suprema, massimo organo giurisdizionale americano. Ovvero, fino a ieri, fino all'elezione di Barack Obama alla presidenza, l'afroamericano chiamato a occupare l'incarico più prestigioso del Paese. Più prestigioso anche della segreteria di Stato ricoperta in tempi recenti da altri due afroamericani, Colin Powell e Condoleezza Rice.
È costellata di tante vicende umane come questa, la storia della lunga marcia - faticosa, dolorosa, e spesso bagnata di sangue - che ha condotto i neri d'America dalla fine dello schiavismo, nel 1865, fino alla freschissima conquista della Casa Bianca. Poco meno di un secolo e mezzo di storia costellata, soprattutto al Sud, di croci infuocate, di lugubri cappucci bianchi, di impiccagioni sommarie. Ma anche di tante piccole e grandi vittorie di altrettanti protagonisti, uomini e donne, che hanno scritto la storia dell'integrazione razziale.
A partire da quei Buffalo Soldiers del 10° Reggimento cavalleria che fino ai primi anni del secolo scorso, in divisa blu, combatterono i pellerossa e il cui ultimo esponente, Mark Matthews, morto nel 2005 all'incredibile età di 111 anni, ha avuto l'onore di essere sepolto al cimitero di Arlington, quello destinato agli eroi. Certamente più vicino a noi, quantomeno nella memoria, è il nome di una minuscola ma coraggiosa donna di Montgomery, nel Mississippi, Rosa Parks, che il 1° dicembre 1955 rifiutò di cedere il posto sull'autobus a un bianco, dando così il via al boicottaggio dei mezzi pubblici. Andarono tutti a piedi, per 381 giorni, fino all'abolizione di quella norma medievale. Un gesto di protesta non violenta - diverso da quelli che avrebbero caratterizzato anni dopo la figura delle Black Panther come Angela Davis - e che proprio per questo strappò al profeta disarmato, Martin Luther King, un'ammirata definizione della Parks: «Espressione individuale di una bramosia infinita di dignità umana».
Sette anni dopo, il 1° ottobre '62, i giornali di tutto il mondo avrebbero riportato un altro episodio di ribellione gandhiana e di indicibile coraggio avvenuto anch'esso in Mississippi: l'ingresso tutto solo, in quell'università notoriamente razzista, al 100% bianca, del primo studente di colore, James Howard Meredith. Un gesto che diede al Ku Klux Klan, peraltro sciolto per legge da anni, il destro per scatenare una serie di violenze che nella complice indifferenza della polizia costò la vita a due ragazzi neri.

La storia ci dice del resto che la lotta per l'integrazione degli afroamericani è continuata per decenni così, procedendo lungo due filoni paralleli destinati a non incontrarsi mai. Perché è stato un dialogo impossibile quello tra l'opzione non violenta, neppure verbalmente, del reverendo King e in seguito portata avanti dai suoi allievi prediletti - Jesse Jackson, due volte in corsa per la nomination democratica nel 1984 e nel 1988; e Andrew Young, ambasciatore all'Onu durante la presidenza Carter nonché per due mandati carismatico sindaco di Atlanta - e l'altra, facente capo a Malcolm X, leader del movimento nero islamico, sfociata in più di un episodio in scontri fisici.

Fisicità che avrebbe fortunatamente preso altre strade, quelle dello sport, ma con il medesimo intento di portare alla ribalta la lotta per l'integrazione dei neri americani. Sono entrati così nella memoria collettiva mondiale - e ci sono rimasti per sempre - i pugni guantati tesi verso l'alto dei due assi americani della corsa, Tommie Smith e John Carlos, rispettivamente primo e terzo alla finale dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968, quando a capo polemicamente chino seguirono sul podio l'esecuzione del loro inno nazionale. Così come tutti ricordano i "comizi" di rivendicazione razziale, prima e dopo gli incontri, sbraitati dal re dei pesi massimi Cassius Clay, divenuto Mohammed Ali ed esponente della Nation of Islam americana proprio dopo il titolo mondiale conquistato nel '64: «Ci hanno insegnato a odiare il colore nero e ad amare il bianco - disse un giorno -. Ma la terra grassa e fertile, è nera. Il nero non è male».

Una verità che ieri, 63 milioni di americani di ogni colore, hanno confermato con il loro voto.

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