Cultura e Spettacoli

L’epistolario lirico dell’«esule» Cristina Campo

Cristina Campo, nome d’arte di Vittoria Guerrini (1923-1977, nella foto), gode di una considerazione straordinaria presso quanti ebbero il privilegio di conoscerla: prima a Firenze, dove si era trasferita bambina dalla natìa Bologna, quindi a Roma dove nel ’56 aveva seguito la famiglia (il padre, illustre musicologo, vi era stato chiamato a dirigere l’Accademia di Santa Cecilia). Grazie a mediatori capaci di comprendere o almeno d’intuire l’ampiezza dell’universo di Cristina - rammento solo Guido Ceronetti e Pietro Citati -, una sua «fortuna» postuma sussiste. Sempre, si capisce, in un giro di happy few, tra i pochi in grado di sintonizzarsi sulle varie lunghezze d’onda che un’incontenibile slancio spingeva Vittoria-Cristina a saggiare, tanto nelle letture che nelle amicizie.
Tutti ne celebravano la bellezza (ho fatto in tempo anch’io ad ascoltarne l’elogio: dalle voci di Mario Luzi, di Piero Pòlito, di Francesco Tentori...), una dote del resto in armonia perfetta con un’altra anche più rara, quella di serbarsi intimamente giovane, pronta a stupirsi a ogni incontro sollecitante, si trattasse di un classico unanimemente riconosciuto, di una fiaba, dei versi di un coetaneo... Le sue note di lettura non erano mai parafrasi o resoconti; Cristina afferrava un filo, e da quello proseguiva per comporre architetture sue, incantevoli: i motivi attinti al libro e al personaggio s’intrecciavano ai dati della propria esperienza diretta (della quale peraltro accusava le povertà, le inadeguatezze). Gli esiti sulla pagina erano sempre incalcolabilmente alti e puri, come aveva imparato dagli autori prediletti: Hofmannsthal (nome ricorrente nel carteggio col germanista Leone Traverso, il «caro Bul» da lei amato di un intenso amore) e Simone Weil, e poi Auden e Williams, la Woolf e Borges...
Un’amica frequentata a partire dagli anni ’50, Margherita «Mita» Pieracci Harwell, viene curando per le edizioni Adelphi l’opera di Cristina e i suoi epistolarî. La tigre assenza ne riunisce le liriche e le traduzioni, Gli imperdonabili e Sotto falso nome ne raccolgono prose di varia indole e misura. Le «Lettere a Gianfranco Draghi e ad altri amici del periodo fiorentino», ordinate adesso in Il mio pensiero non vi lascia (pagg. 273, euro 24), aggiungono elementi utili alla definizione del carattere di Cristina, specie per la sua prima stagione romana. Se gradatamente Roma le schiuderà le proprie ricchezze, anche le più segrete (la scoperta di San Clemente la entusiasma), all’inizio prevalgono il disagio, la nostalgia, il rimpianto. Abbandonare Firenze equivale a dar l’addio a un’età della vita. Con affranta dolcezza lei lo racconta agli amici fiorentini, in particolare a Gianfranco Draghi. Responsabile di una «Piccola posta» sul Corriere dell’Adda e del Ticino, in quella piccola palestra periferica Draghi ospita alcuni tra i migliori amici della Campo, fiduciosi al pari di lei nella virtù della poesia. Accanto ai ticinesi Giorgio Orelli e Remo Fasani, i fiorentini Pier Francesco Marcucci, Ferruccio Masini e molti altri. Emerge Luzi, che Cristina valuta - con Primizie del deserto (1952) - non inferiore a Montale.
Mere eleganze della fantasia e dello spirito? No, se si pensa che a questa passione primaria nella Campo si accompagna il fervido appoggio a battaglie di civiltà come quella di Danilo Dolci in Sicilia o alla lotta del popolo cipriota per rendersi indipendente dall’Inghilterra.

La natura di Cristina comportava questa generosità a largo raggio, offerta anche alle cause più difficili: che non erano sempre e soltanto «letteratura».

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