Politica

L’esproprio proletario dell’antifascismo

Il 14 aprile 1950 Benedetto Croce scriveva a Mario Pannunzio, direttore de Il Mondo: «Ho scritto ier l'altro a Venezia per dare il mio nome pel prossimo congresso della Resistenza. Non potendo intervenire di persona, ero portato ad astenermi dall'adesione. Ma mi è venuto poi il pensiero che si potesse da alcuni falsificare il significato di quel fatto, che onora gli italiani... Ora io, che fui in quel periodo un anello di congiungimento, partecipai al sentimento che ci univa, e che era semplicemente questo: il bisogno fondamentale della libertà. Ci trovammo l'uno accanto all'altro liberali e cattolici, e socialisti o addirittura comunisti, e nessuno domandava quali fossero le particolari tendenze degli altri, perché tutti sentivamo che nei nostri animi primeggiava una tendenza sola».
Le nitide parole del filosofo liberale coglievano già allora la natura della Resistenza e della Liberazione, e indicavano le interpretazioni politiche tendenziose che avrebbero potuto stravolgere il significato della riscossa nazionale vissuta in nome della libertà. La storiografia della sinistra comunista e la pratica politica dei suoi rappresentanti hanno, al contrario, accreditato per sessant'anni versioni più o meno settarie dell'antifascismo e della Resistenza-Liberazione che spesso hanno avuto poco a che fare con la realtà.
Si è ridotto l'antifascismo ad una categoria metafisica sostanzialmente equivalente alla democrazia secondo la declinazione data dal Pci. Secondo l'intellettualità della sinistra frontista non si poteva essere, al tempo stesso, antifascisti e anticomunisti, perché i due termini erano considerati contraddittori. In tal modo si delegittimava l'intera storia degli antifascismi cattolico, liberale, democratico e socialista riformista che, in quanto distinti e spesso divergenti dall'antifascismo comunista, non potevano avere memoria storica né diritto di cittadinanza politica.
Lo stesso discorso vale per l'interpretazione della Resistenza. Quello che fu un capitolo storico, peraltro limitato ad alcune regioni del centro-nord che videro l'insurrezione partigiana negli ultimi giorni dopo che gli Alleati anglo-americani avevano fatto il grosso della guerra anti-nazifascista, divenne nel corso del tempo una specie di mitologia astorica, da cui furono espulsi i contributi dei partigiani delle formazioni non comuniste e dei corpi dell'esercito italiano che pagarono contributi non indifferenti di sangue.
Ma il peggiore servizio che è stato reso a quegli eventi, certo decisivi per la rinascita della democrazia nella Repubblica, è stata la mitizzazione delle ricorrenze storiche che è andata gonfiandosi con gli anni. Più gli autentici protagonisti di quella stagione scomparivano, più crescevano i gruppi, le associazioni, le iniziative, le bardature, le ricorrenze e perfino le persone che pretendevano di parlare in nome e per conto dell'antifascismo e della Resistenza, invocati non per ciò che effettivamente furono, ma come categorie metafisiche utilizzate per raffigurare lo scontro perenne tra gli autoritari di destra ed i democratici di sinistra.
Di tal fatta è l'inganno che è stato riproposto in questo 25 aprile in cui la Confederazione italiana delle associazioni combattentistiche e partigiane (sic) ha distribuito volantini in cui si proclama che «l'Italia sta correndo nuovi pericoli. Emergono sempre più rischi per la tenuta del sistema democratico» ... per cui occorre «una mobilitazione straordinaria». Un discorso che, tradotto in parole semplici, significa: «attenzione il barbaro Berlusconi con il suo codazzo di fascisti e parafascisti è nelle nostre case, e quindi bisogna darsi da fare per cacciarlo via». Tutto ciò si chiama «uso politico della storia» che, in Italia è servito per silenziare gli antitotalitari (antifascisti+anticomunisti) che ovunque hanno combattuto per la libertà. Ha scritto François Furet: «In Europa occidentale prevalse dappertutto l'effetto di intimidazione contenuto nell'alternativa fascismo/antifascismo: in Italia dove l'ideologia dell'antifascismo ebbe la massima diffusione, il concetto di totalitarismo non ha mai avuto diritto di cittadinanza. L'idea è stata ignorata, quasi vietata, nel paese dal quale era venuta la parola».
Le riflessioni dello storico francese dovrebbero essere meditate anche da chi come Mario Pirani, con sofisticate argomentazioni, vuole colpire il bersaglio di «una versione edulcorata del fascismo», come si intitolava ieri l'articolo su la Repubblica. Non si è capito bene a chi volesse rivolgere l'interrogativo: «Non è venuto il momento per spogliare le date epocali della vicenda repubblicana dall'affronto riduttivo delle polemiche contingenti?». Forse sarebbe stato opportuno che l'autorevole editorialista si riferisse esplicitamente a quanti divulgano, con banale monotonia da mezzo secolo, volantini che chiamano alla mobilitazione straordinaria contro i rischi che correrebbe il sistema democratico.
Massimo Teodori
m.

teodori@mclink.it

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