L’Europa scopre quanto è lontana la Turchia

Alberto Indelicato

Nel giro di pochi mesi il sogno europeo della Turchia sembra essersi dissolto per ragioni che non hanno nulla a che fare con i meriti o i demeriti della sua classe politica.
Questa ha tentato di soddisfare molte se non tutte le condizioni che le erano state poste dalla modifica del codice penale, compresa l’abolizione della pena di morte, all’attenuazione dell’ispirazione islamica nella politica e nei costumi quotidiani.
In modo contraddittorio le era stato chiesto anche di limitare i poteri dei militari che dal tempo di Kemal Ataturk erano stati i garanti della laicizzazione della società.
I dirigenti turchi erano perciò abbastanza ottimisti sull’ingresso, sia pure tra una decina d’anni, nell’Unione europea.
Per esso premeva anche il governo di Washington, che aveva sempre apprezzato il comportamento leale di Ankara in seno all’Alleanza Atlantica. Sia detto, per inciso, le pressioni Usa non hanno mai provocato le proteste europee per l’ingerenza nelle loro questioni interne.
Forse è stato proprio il rifiuto della Turchia alla richiesta statunitense di assistenza logistica per l’attacco all’Irak che ha segnato il momento della svolta.
Gli Stati Uniti, pur continuando ad insistere perché gli europei accettassero in seno all’Unione la Turchia, non hanno potuto mancare di notare che essa sul problema iracheno si era in definitiva schierata con Parigi e Berlino contro l’intervento.
Ciò avrebbe dovuto giocare a favore delle speranze dei turchi, dato che proprio i governi francese e tedesco erano i fautori più accesi del loro ingresso.
Ma si trattava per l’appunto dei governi e non delle opinioni pubbliche, che sono riuscite ad imporsi cambiando totalmente le prospettive. Il recente referendum francese sul trattato «costituzionale» non ha in teoria nulla a che fare con il problema, ma è evidente che gli elettori con il loro voto hanno anche voluto bloccare nuovi allargamenti a cominciare da quello turco.
Ed è già scontato il risultato della consultazione che dovrà essere indetta in Francia sulla questione specifica.
D’altra parte i dirigenti della maggioranza governativa, che sino ad ora non hanno osato contraddire la posizione favorevole del presidente Jacques Chirac, con l’impallidirsi definitivo della sua stella non hanno avuto esitazioni a dichiararsi contrari a che sia mantenuta l’incauta promessa fatta nel 1984 dagli Stati dell’Ue di iniziare nell’ottobre prossimo negoziati in vista dell’ingresso turco.
Un’evoluzione analoga si è avuta in Germania, dove molto probabilmente al governo dei «filoturchi» Schröder e Fischer succederà quello cristiano-democratico di Angela Merkel, che si è anch’essa pronunziata esclusivamente per una partnership privilegiata con Ankara. Ad alimentare le scarse speranze residue di quest’ultima resta forse soltanto Londra, il cui scopo è di allargare al massimo l’Unione europea per renderla sempre più debole e quindi più dipendente dall’«asse anglo-sassone».


Ma l’appoggio del Regno Unito - che tra l’altro non aderendo al Trattato di Schengen non teme le ripercussioni migratorie delle nuove adesioni - certamente non basterebbe, specie di fronte a un’opposizione sempre più esplicita dell’opinione pubblica europea, a cominciare proprio da quella britannica.

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