Economia

L’ex manovale che ha «reinventato» il tornio

Produce 140 torni all'anno, macchine utensili destinate in prevalenza al settore automobilistico per fare i mozzi delle ruote, i dischi del freno, turbine, i volani del motore, scatole del differenziale, gli ingranaggi del cambio manuale e le fasce del cambio automatico, sospensioni. Insomma, un bel po' di roba. Prima quasi tutte queste macchine utensili finivano al gruppo Fiat-Iveco nonostante Torino potesse contare su una struttura specializzata nell'automazione come il Comau, dopo la crisi della casa torinese sono diventati clienti anche Volkswagen, DaimlerChrysler, Seat, Man, Renault, persino la coreana Hyundai. Ed anche aziende del settore elettrodomestico come la Zanussi. Dal che si può dedurre che questi 140 torni devono avere qualcosa di speciale. Ed in effetti non sono macchine utensili standard, sono invece quasi tutte personalizzate. Con l'aggiunta di una caratteristica: sono torni verticali a mandrino capovolto. Cosa che fa della Famar, l'azienda che li produce, la numero uno in Italia e la seconda al mondo.
La rivoluzione. Torni verticali a mandrino capovolto? Senza addentrarci troppo nei particolari tecnici, si può dire che i torni sono diventati col passare del tempo dei centri di lavoro multifunzione. Oltre a tornire, possono quindi forare, filettare, fresare, rettificare, ora allo studio c'è anche quello per la dentatura. Ebbene, fino a metà degli anni Novanta questi centri di tornitura lavoravano tutti alla stessa maniera. Poi la Famar è uscita sul mercato con un prodotto altamente innovativo, il tornio verticale a mandrino capovolto, che ha ribaltato il concetto di lavoro utilizzato fino ad allora. Il mandrino, spiega Fausto Marinello, titolare della Famar, «è l'asse di lavoro che porta l'attrezzo di presa. Fino a quel momento era l'utensile a muoversi, grazie invece a questa innovazione l'utensile sta fermo e a muoversi è il pezzo. Con vantaggi enormi in quanto il tornio si carica e scarica da solo dei pezzi in tempi brevi e in maniera automatica e non c'è quindi più bisogno del robot che provvede a caricare e scaricare. È nato, in sostanza, il tornio pick up, che prende su, con tempi di carico e scarico dimezzati».
Alto più di un metro e ottanta, baffetti, occhi sornioni e tifoso della squadra di calcio del Torino, Marinello è del 1946, è originario di Giaveno, un piccolo paese della Valsangone, nell'hinterland torinese, ed ha una sorella più giovane di nove anni, Silvana, che lavora alla Rai di Torino, settore acquisti. Figlio di Beniamino, direttore della Cartiera Reguzzoni di Giaveno, scomparso nel 1980, e di mamma Maria, il giovane Fausto smette dopo le medie di studiare «quasi per ripicca» nei confronti del padre, un tipo molto severo. Ha 14 anni e comincia a lavorare alla Magnadyne di Sant'Antonino di Susa, a 50 chilometri di distanza da casa. Fa l'aiuto manovale, nel senso che carica un carretto di apparecchi radio che poi il manovale trasporta da un capannone all'altro. Soprattutto copre la distanza dei 50 chilometri percorrendone ogni giorno sei a piedi, quindi facendo un'ora di pullman e poi un'altra ora di treno. E la stessa cosa è la sera, a volte riesce a prendere il pullman delle 22 destinato agli operai del secondo turno della Fiat di Avigliana, un grosso stabilimento di bullonerie con più di 3mila operai. A 16 anni viene proprio assunto in quello stabilimento Fiat e assegnato al reparto della manutenzione elettromeccanica. Per lui è un sogno: è più vicino a casa, si guadagna meglio, resta anche affascinato dagli impianti, tutte linee superautomatiche e donate dagli Stati Uniti nell'ambito del piano Marshall. Marinello ricorda ancora stampate sugli impianti l'aquila e la bandiera americane.
Il ritorno a scuola. A 20 anni capisce che bisogna tornare a scuola: così per cinque anni frequenta a Torino dalle 18 alle 23 lo Spagnesi per ottenere il diploma di perito elettronico, quindi va a lavorare ad Avigliana nel turno di notte, esce dalla fabbrica alle 7 del mattino e alle 8 è a casa. «Vita non facile», commenta. Tadotto significa: Fausto si fa il mazzo ma diventa anche un tecnico coi fiocchi. E a 24 anni, nel 1970, lascia la Fiat per diventare capo officina di un'aziendina di Rivoli, la Monf, che ha trovato un suo filone di business: dal momento che le nuove macchine a controllo numerico costano un occhio della testa, questa Monf trasforma le vecchie macchine utensili, azionate idraulicamente o meccanicamente, in macchine a controllo numerico. I costi, dice Marinello, «erano più bassi e la produttività quasi uguale».
Il grande passo. Tre anni più tardi il proprietario della Monf, in tutto 15 dipendenti, muore. E allora Marinello la compra (con i debiti) insieme con un socio di nome Benedetto Testa. I soldi, 200 milioni, avrebbero dovuto essere dati dal San Paolo di Torino che invece per qualche motivo fa ad un certo punto marcia indietro. Ed è la Cassa di Risparmio di Torino, sede di Rivoli, a fornire in un paio di settimane la somma necessaria. Da allora, dice Marinello, «la Cassa di Risparmio di Torino, oggi Unicredit, è l'unica banca con cui lavoro».
La svolta nel 1986. La Famar comunque non nasce nel 1973. Quell'anno prende vita invece la MT, dalle iniziali dei due soci. Ed è nel 1986, quando Marinello rimane solo alla guida dell’aziendina che nel frattempo ha un nuovo stabilimento a Sant'Ambrogio di Torino e dà lavoro a più di trenta persone, che assume il nome di Famar. Che vuol dire? È una sintesi del suo nome e cognome. Marinello è una specie di vulcano: grande accentratore, è già in fabbrica alle 7,30 e ci resta sino alle 20-21, ci va anche il sabato mattina ma una volta ci lavorava anche il pomeriggio e una parte della domenica, ama progettare al punto da avere collezionato una ventina di brevetti, si vanta di non avere mai avuto uno sciopero in fabbrica e di non avere nemmeno il sindacato, non ha neppure dirigenti e tiene costantemente sui carboni ardenti tutti quelli impegnati nella ricerca in quanto è convinto che solo con l'innovazione si resta competitivi. La prima macchina a controllo numerico interamente progettata e realizzata in serie dalla Famar, una macchina bimandrino ad asse orizzontale, risale al 1992 quando l'azienda si è già trasferita nella nuova sede di Avigliana, più di 8mila metri quadrati che diventeranno il doppio nel giro di poco tempo. E viene chiamata Benjamin, più o meno lo stesso nome del padre. Un gesto d'amore da parte del figlio ma anche un atto di orgoglio in quanto il padre era solito dirgli che lui non sapeva fare niente.
Il cambiamento. «Quel tornio - dice Marinello - rappresenta l'inizio del nostro cambiamento: da azienda artigiana ad azienda industriale». Ma la svolta decisiva avviene tre anni più tardi: nel 1995 la Famar presenta alla Emo di Milano, la fiera mondiale delle macchine utensili, il prototipo del tornio verticale a mandrino capovolto, in grado di caricare e scaricare da solo gli elementi da lavorare. Viene chiamato Ergo ed ancora oggi è il modello di punta con innumerevoli installazioni nel mondo. Ma allora, quando cominciano a piovere i primi ordini, Marinello ha solo quel prototipo e in banca circa tre miliardi delle vecchie lire di debiti. «Abbiamo fatto i salti mortali per rispettare gli ordini. Ma è in questo modo che siamo riusciti a competere con i marchi più blasonati dei tedeschi e dei coreani».
Sposato con Dina Benna, una maestra elementare, Marinello ha due figli, entrambi in azienda: Beatrice, 1974, responsabile dell'ufficio commerciale, e Federico, 1978, perito meccanico e responsabile dell’ufficio tecnico. Ma ha anche con sé sin dall'inizio della sua avventura imprenditoriale alcuni collaboratori di cui ha grande fiducia: Mauro Martin, con lui da quando aveva 17 anni, segue i software che l'azienda monta nelle macchine; Bruno Sandrone, a cui fa capo l'ufficio tecnico; Maria Clara Piovano, che cura l'amministrazione, e Sabina Barro, responsabile degli acquisti. La Famar ha 150 dipendenti per lo più concentrati ad Avigliana, un fatturato di 40 milioni di euro di cui il 55% con l'export. Ed ora sta lavorando per trasformare il centro di tornitura in un centro di lavoro globale, con cinque assi interpolanti simultaneamente. Per gli addetti ai lavori è come se un automobilista guidasse una Ferrari. «Tutti progetti fatti in casa», sottolinea Marinello.


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