L’illusione di una Norimberga irachena

Gli echi dell’esecuzione di Saddam confermano che la globalizzazione è lontana dall’aver eliminato le distanze abissali che dividono il mondo. Per chi viva in Europa, che ha avuto sessanta anni di tempo, di pace, di democrazia protetti dall’ombrello americano per capire o per digerire le forche di Norimberga, è naturale rispondere col «nessuno tocchi Caino» al terribile spettacolo di Bagdad. E non sono stati molti fra i politici, gli intellettuali, fra coloro che vivono di effetti mediatici che abbiano risposto in modo diverso. Il confronto fra un mondo che deve ancora ricorrere all’opera del boia, e uno che la figura del boia lo ha cancellato sia pure da pochi decenni si è fatto sentire. E infatti nel mondo arabo che ha un’idea diversa della morte, in specie se inflitta al nemico, e nel quale la divisione fra sunniti e sciiti si è fatta decisiva, le reazioni sono state diverse come suggeriscono le manifestazioni, di giubilo oltreché di cordoglio, fra gli iracheni.
Qualche imbarazzo in più si è notato da noi, dinanzi alla ritorsione di quel portavoce di Bagdad il quale, davanti alle proteste provenienti dall’Italia, ha ricordato la fine di Mussolini. Spiegabile anch'essa, peraltro, con la necessità di liberare il Paese da un despota imbarazzante e pericoloso, possibile calamita di risentimenti e di passioni lungi ancora dall’essere sopiti con la disfatta nazista.
I soldati americani che si sono trovati qualche anno fa dinanzi a Saddam erano in condizioni paragonabili a quelle dei partigiani che misero le mani su Mussolini nel lontano 1945. Chiunque si sia trovato a decidere in quelle ore sulla sorte del rais avrebbe potuto procedere alla sua esecuzione immediata (per dirla col portavoce di Bagdad, all’italiana). Scelse la consegna al giudice del despota. Fu una scelta suggerita dall’idea, o dall’illusione, che un processo destinato a riportare alla luce i delitti del rais avrebbe guarito gli iracheni da nostalgie e rancori. Fu il miraggio di una Norimberga asiatica destinata a confermare al mondo quale sia la sorte da destinare ai dittatori.
Secondo alcuni, l’errore fu compiuto proprio allora, ne accenna Paolo Mieli in un articolo. Perché un Saddam morto in combattimento o in un tentativo di fuga, avrebbe forse risparmiato molti guai al governo iracheno, e ancor più a quello americano costretto a intervenire su Bagdad perché nell’esecuzione dei complici di Saddam si seguano strade «più adeguate». E però, una volta avviato il processo, ed emessa la condanna, la strada di una commutazione della pena nel carcere a vita, prospettata da Pannella, sarebbe risultata impraticabile. E per una circostanza che sembra minore, ma che è a guardar bene era decisiva: a chi affidare la custodia di Saddam?
I processi di Norimberga, si ricorderà, si conclusero per la maggior parte degli imputati con la morte per impiccagione, per altri con l’assoluzione, o con pene detentive, fino all’ergastolo. Ma per gli scampati alla morte, Hess, Raeder, Speer, si allestirono carceri speciali vigilati dalle truppe d'occupazione. Rudolf Hess morì nel 1987, 40 anni dopo la condanna, nel carcere di Spandau a Berlino Est. Ma chi, nella situazione dell’Irak, nella fragilità del governo legittimo, avrebbe potuto assumersi il ruolo assicurato dai soldati sovietici e dai servizi di sicurezza di Mosca? Un Saddam in vita avrebbe certo costituito un incentivo, e un obiettivo finale, alla guerra civile. Ma di un simile argomento non si è trovato traccia sui giornali. È un segno della distanza fra le parole della politica e la realtà.
a.

gismondi@tin.it

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