L’immigrato deve riconoscere una sola patria

Federico Guiglia

Ora tutti «riflettono», dopo l'orribile vicenda della povera Hina, ventenne pachistana non ancora formalmente italiana pur essendolo per stile di vita e scelte compiute: e proprio perciò uccisa barbaramente, essendo diventata «come le altre». Anche questa tragedia rivela un aspetto finora sottovalutato dal governo, come dimostra il disegno sulla nuova cittadinanza per gli stranieri che ha da poco presentato: l'aspetto di come risolvere il delicatissimo problema delle due patrie della persona immigrata. La sua patria d'origine (o d'origine dei suoi genitori, visto che molti dei potenziali richiedenti sono nati in Italia e non conoscono altra nazione al di fuori di questa, che è già, quindi, la loro nazione), e la patria acquisita. Qual è, dunque, il criterio per accertare se chi diventa italiano, lo diventi almeno un po' anche per laica convinzione e non solo per pura convenienza? Come si fa a capire se la cittadinanza è il traguardo del processo d'inserimento e non il suggello burocratico e di comodo per chi intende continuare a far pesare, paradossalmente, la sua assoluta estraneità o addirittura avversità al tessuto sociale e civile del nostro Paese?
Finora il legislatore non s'era posto neanche l'interrogativo, lasciando al fattore tempo di regolare l'incombenza da sé: e così dieci anni di residenza continuativa e regolare occorrevano e occorrono ai cittadini non italiani per sollecitare, se lo desiderano, la cittadinanza italiana. Senza riti particolari, senza prove istituzionali, senza una benché minima idea di considerare la cittadinanza per l'immenso valore che ha. Una forma di «reciproco riconoscimento» fra cittadino e nazione, finalizzata anche a evitare ai figli le difficoltà incontrate dai padri. C'è calcolo, non c'è dubbio, ma c'è anche condivisione.
Ma se da dieci anni il requisito si dimezza a cinque - come nella proposta-Amato; ma nella maggioranza già si parla di «almeno sette» -, è ovvio che serva dell'altro e ben altro per assicurare il rapporto leale fra l'ex straniero e il suo nuovo Stato accogliente. Gli americani, per esempio, risolvono il tema alla radice, nel senso di costringere i richiedenti alla rinuncia. Rinuncia a far valere qualunque vincolo nei confronti della precedente nazionalità, e con un giuramento pubblico, solenne e con tali espressioni usate («I absolutely and entirely renounce and abjure...») che sarà pure un atto retorico e teorico, ma lascia chiaramente il segno in chi lo compie; e fa soprattutto comprendere che richiedere la cittadinanza americana comporta dei doveri da adempiere, e non solo dei diritti da incamerare: il dovere di difendere con ogni mezzo legittimo e contro nemici esterni o interni la Costituzione e le leggi della nuova patria. «I will support and defend the Constitution and laws of the United States against all enemies, foreign and domestic». La cerimonia impone inoltre all'aspirante di dichiarare che la richiesta è stata una libera scelta.
La rinuncia a far valere in qualunque modo e circostanza principi contrari ai diritti universali della persona e dei popoli, è il minimo che si dovrebbe pretendere da chi vuole liberamente diventare cittadino italiano. Non una rinuncia alla patria o alla cultura d'origine, ché sono, anzi, elementi di arricchimento della nuova identità italiana, ma l'abbandono completo e senza riserve di qualunque atteggiamento che possa configurarsi come l'opposto all'integrazione civica e civile. E con l'eventualità di poter revocare tale cittadinanza entro un lasso di tempo ragionevole per chi avrà dato prova d'aver brutalmente trasgredito il giuramento fatto alla Repubblica. A costo di dover introdurre modifiche di rango costituzionale per far rispettare, un domani, la novità.
f.

guiglia@tiscali.it

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