Cultura e Spettacoli

L'«Indagine» che ha trasformato il giallo al cinema

Un libro sul celebre film di Elio Petri che, quarant'anni fa, vinse l'Oscar come miglior film straniero e si aggiudicò un riconoscimento a Cannes. È una magistrale analisi del tessuto sociale dell'Italia dell'epoca e vanta un pregio particolare anche come tecnica registica

Quarant'anni sono passati da quel 1971 in cui il film «Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto» vinse l'Oscar come miglior film straniero dopo aver incassato il riconoscimento speciale della giuria al festival di Cannes. La pellicola di Elio Petri risaliva a due anni prima, il 1969, ma il tempo non le aveva precluso importanti premi. E in effetti «Indagine» apparteneva a un filone profondamente legato alla new Hollywood, più che alla tradizione del poliziesco italiano, che in quegli anni e in quelli a seguire avrebbe invaso i cinema di tutta Italia con opere di non sempre eccelsa qualità. Per ricordare il capolavoro di Petri è uscito in questi giorni un volume dedicato al film (Lindau, pp. 145, euro 16) in cui Claudio Bisoni, docente di Storia e metodologia della critica cinematografica a Bologna, ne racconta e rivela aspetti e significati.
La trama, brevemente sintetizzata, affronta le vicissitudini del capo della sezione omicidi della questura di Roma che uccide la propria amante, dopo averla sorpresa in dolce compagnia con un giovane attivista della contestazione politica. L'assassino sparge dietro di sé una serie di indizi che convergono su di sé, ma nessuno è in grado di ricomporre il mosaico dell'inchiesta finché lo stesso ispettore non decide di costituirsi. L'epigrafe è una citazione kafkiana: «Qualunque imposizione faccia su di voi, egli è servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano».
Il film, tra i più belli della cinematografia di casa nostra, mostra alcune particolarità che lo staccano non solo dalla tradizione ma anche dal modo di racconto del giallo, genere cui di diritto appartiene. In «Indagine» infatti lo spettatore sa perfettamente, fin dalle prime scene, chi è l'autore del delitto, consapevolezza preclusa invece ai personaggi messi in scena, che ignorano al punto da faticare a rendersi conto della verità perfino quando questa viene rivelata dal colpevole. Lo spettatore dunque non deve scoprire nulla nel corso del film, se non capire il movente che ha spinto il poliziotto a uccidere.
In questa prospettiva, il film si distingue per altre preziosità, contenute stavolta non nei registri narrativi, ma nell'oggetto rappresentato. La società fine anni Sessanta. Con i suoi vizi nascosti. Le sue debolezze. Le sue chiavi interpretative. La vittima è una donna che nessuno ama. Non il marito omosessuale, non l'amante poliziotto che la usa per realizzare solo le sue fantasie, non il giovane contestatore che proprio fuori dall'ambiente dei rivoluzionari coglie quel successo che la politica gli preclude, imponendosi perfino sul potere costituito, ma soltanto nel possesso di una donna. La chiave di lettura è di stampo marxista non solo per il fatto che il giovane attivista della contestazione perde sulla piazza, ma vince contro l'ispettore nella conquista di un cuore femminile. La donna è un prodotto dell'industria culturale. È schiava della sua passione per gialli e racconti di cronaca nera, capaci di soddisfare le proprie fantasie trasgressive, che regolarmente riesce a realizzare negli incontri amorosi con il poliziotto, prima che costui la uccida.
Infine, la sconfitta del reo è ridimensionata dal fatto che il capo della omicidi non sarebbe mai stato incriminato, se non fosse lui stesso a confessare il delitto. E quindi a mantenere quel che aveva precedentemente anticipato. Quel «Ve lo consegno io il colpevole» che sembra denotare tanta carenza di stima nei confronti dei colleghi di lavoro. Come nel mondo che lo circonda. Il montaggio del film sostiene i moduli narrativi e compie scelte importanti. Non ci sono dissolvenze. Di nessuna forma. Le scene sono divise da cesure violente. Stacchi sul nero. Stacchi netti. Capaci di provocare fratture.

Le stesse che il regista aveva voluto e che il film doveva trasmettere allo spettatore.

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