L’indifferenza dei «cattivi maestri»

Pietro Mancini

«Troppo rumore per un episodio di scarsa importanza». Sono apparse sconcertanti e deludenti l’indifferenza e il gelido distacco con cui Adriano Sofri sul Foglio ha bocciato le tante proteste contro l’ascesa dell’ex terrorista di Prima Linea, Sergio D’Elia, alla segreteria dell’ufficio di presidenza di Montecitorio. Liquidare con sufficienza la rabbia dei familiari dell’agente Fausto Dionisi, ucciso a Firenze nel 1978 da un commando di cui faceva parte l’attuale deputato pannelliano, e la rivolta dei poliziotti (anche di quelli iscritti ai sindacati di sinistra) che spediranno 3 milioni di cartoline di fermo dissenso al presidente della Camera Bertinotti, dimostra come sia ancora molto difficile colmare il fossato che separa le vittime e quanti, negli anni di piombo, impugnarono le «P38» o giustificarono le azioni terroristiche.
La spaccatura sul «caso D’Elia» evidenzia la strada ancora lunga da percorrere nella società reale, prima ancora che nel Palazzo, per avvicinare due mondi ancora così distanti. Proprio negli stessi giorni in cui il nuovo ministro della Giustizia Clemente Mastella si affanna ad annunciare, forse troppo frettolosamente, provvedimenti di clemenza. Bisognerebbe favorire una riconciliazione nazionale autentica, e non fittizia, alla quale dovrebbero contribuire anche Sofri e gli intellettuali, troppo spesso silenziosi, indifferenti con le vittime ma comprensivi solo delle ragioni degli ex rivoluzionari.
I difensori dell’ex terrorista, nel tentativo di minimizzarne le colpe, hanno prima sostenuto che D’Elia, non avendo premuto il grilletto per ammazzare Dionisi, dovrebbe essere considerato meno responsabile rispetto ai suoi compagni assassini. Un argomento assurdo e controproducente, perché nessun codice penale prevede che al mandante o all’ideatore di un delitto venga inflitta una pena più lieve rispetto al killer.
Poi si sono levate le voci di chi, come la ex terrorista nera Francesca Mambro, è arrivata a sostenere assurdamente che alla Camera dei deputati il parlamentare radicale rappresenterà meglio di altri colleghi anche i parenti delle vittime, per aver vissuto il dolore e l’isolamento negli anni del carcere. Per ultima, ecco la freddezza di Sofri, che non ha fatto una piega di fronte alle urla strazianti dei parenti del povero servitore dello Stato. Queste reazioni danno ragione alla scrittrice Barbara Spinelli, che qualche mese fa, in un suo commento sulla Stampa intitolato «Gli assassini sono tanto di moda», acutamente osservò: «Questo voler voltar pagina è proprio delle élites politiche, culturali, giornalistiche, che circondano tanti fatti del nostro passato e tante distorsioni presenti con una cintura fatta di neutralità, di indifferenza compiacente, di svilimento di ciò che costituisce reato. L’Italia è un Paese che non tende a fare i conti con la propria storia e che neppure sa chiuderla con i necessari riti di passaggio: disinvoltamente, usa lasciarli in sospeso. Gli ex terroristi lo sanno, e ne profittano: vorrebbero apparire diversi, ma non sono che il sintomo di una malattia nazionale».
Non spetta ai familiari dei morti e dei feriti il compito di curare e di lenire le tante e dolorose ferite aperte nel corpo della società dai brigatisti e dai «cattivi maestri» che esaltarono la «geometrica potenza» degli attacchi al cuore dello Stato. Costoro, come gli altri cittadini (compresi gli ex terroristi) hanno delegato le istituzioni, il Quirinale, il governo, il Parlamento a farsi carico delle legittime esigenze di non vedere umiliati e mortificati i propri diritti. Così come è giusto che la storia del Paese non venga scritta né dai terroristi né dai familiari di quanti sono caduti sul selciato, massacrati dal piombo delle formazioni comuniste combattenti, così lo Stato dovrebbe impegnarsi a fissare chiaramente dei limiti da non far varcare a chi ha seminato barbarie e lutti nella collettività nazionale. Nessuno discute che, 20 anni dopo aver ucciso, Cesare Battisti (ad oggi uccel di bosco) possa esser diventato uno scrittore (mediocre) di libri gialli nella latitanza a Parigi. Probabilmente anche Persichetti, l’assassino del generale Licio Giorgieri, si era inserito nella società francese e pagava le tasse come tutti noi prima di essere estradato in Italia per scontare la sua pena. Dopo il periodo trascorso in prigione e il lavoro politico svolto con i radicali Sergio D’Elia ha dunque il diritto di continuare la sua vita, privata e pubblica. Ma al presidente della Camera, Fausto Bertinotti, ai capigruppo di Montecitorio e allo stesso deputato della Rosa nel Pugno è giusto sollecitare atteggiamenti meno burocratici, che denotino maggiore sensibilità delle istituzioni nei confronti del comune sentire dei cittadini.

Atteggiamenti che siano in grado di cancellare quella deleteria sensazione di impunità e di premio per quanti hanno arrecato una terribile ferita, individuale e collettiva, alla convivenza civile e alla coscienza democratica del Paese.

Commenti