Politica

L’involuzione democratica dei Democratici

Il dibattito precongressuale del Partito democratico ha qualcosa di surreale rispetto alla concretezza dei problemi che sono nell’agenda politica del Paese. Primo fra tutti il tema istituzionale in una stagione nella quale appare sempre più inadeguato il sistema politico nazionale, una sorta di centauro metà parlamentare e metà presidenziale nel quale il Parlamento conta poco o niente e il governo non ha i poteri tipici di un presidenzialismo democratico all’americana. Dopo diciassette lunghi anni il Pd, erede dei comunisti e della sinistra democristiana non si pone neanche lontanamente questo che è il tema di fondo della democrazia italiana. La gestione Veltroni-Franceschini, ispirata dai referendari travolti dal voto popolare, ha tagliato i ponti con tutti, finanche con il piccolo Partito socialista mentre imbarcava l’astuto Di Pietro che, in quindici mesi, gli ha fregato voti e spazi politici. Se si considera che il Pd ha perso sette punti alle europee e 30 province su 59 nelle ultime amministrative il quadro che ne vien fuori è quello di un partito che, cancellando le memorie di ciascuno, non sembra avere più un futuro da costruire. E la riprova sta anche nell’applauso di alcuni fenomeni «clamorosi» come quello della Serracchiani in cui si confonde il successo elettorale con una sostanza politica che al momento non c’è né potrebbe esserci. Tutti siamo stati giovani e tutti abbiamo vissuto, anche da protagonisti, successi elettorali clamorosi, ma la serietà antica non ha mai confuso un successo elettorale con la capacità di guidare un partito. E questo vale anche per il terzo candidato, Ignazio Marino. In politica il nulla non si sostituisce con il nulla e non suoni offesa per nessuno perché parliamo di politica e non di persone. Inoltre i due maggiori candidati Franceschini e Bersani, stanno preparando la propria squadra di governo quasi a testimoniare che chi dovesse perdere non avrà più titolo a concorre al governo del partito. Una involuzione democratica allarmante. Infine il Partito democratico sembra dimenticare che i grandi partiti di massa sono figli della politica e non delle tecnicalità elettorali, come pur suggeriscono alcuni professori ignari dei processi politici. La riprova sono le ultime elezioni europee vissute con la soglia del 4 per cento. Il Pd è tornato ad essere la somma matematica di ciò che erano i Ds e la Margherita (17 per cento e 10 per cento rispettivamente) e lo stesso risultato del Pdl è la somma di An (10 per cento) e di Forza Italia (il 25 per cento) a testimonianza di uno smarrimento comune dei fondamentali della politica. In parole semplici chi vuole che siano gli elettori a decidere chi deve governare, deve proporre il sistema presidenziale con tutti i suoi pesi e contrappesi. Chi non lo vuole, deve sapere allora che l’unico altro sistema è quello parlamentare dove le maggioranze si fanno e di disfano in Parlamento e non nella cabina elettorale. Diversamente si crea solo confusione. E tanto per rimanere nel tema, la corsa precongressuale nel Pd non si concluderà con l’elezione del segretario, come avviene in tutti i partiti del mondo, ma si limiterà a indicare i tre nomi che, superando il 5 per cento, andranno alle primarie per le quali voteranno tutti, iscritti ed elettori. Un democraticismo di maniera che pensa di scimmiottare così il sistema americano che, al contrario, fa le primarie per scegliere il candidato alla presidenza degli Stati Uniti e non quello alla segreteria del partito e che non si accorge che così facendo codifica lo scontro tra la politica (iscritti e dirigenti) e l’antipolitica (gli elettori e la piazza) con il rischio di eleggere un segretario che non ha la maggioranza tra i propri iscritti. Insomma gli elettori contro la casta. Una pura follia. Gli elettori vanno rispettati chiedendo loro le funzioni che possono svolgere. Se li si chiama a decidere i vertici di un partito, alla cui vita poi non partecipano, si scivola inevitabilmente nel populismo della peggiore specie.

È vero, come dice il presidente Napolitano, che la crisi della politica non è la crisi della democrazia ma, a lungo andare, essa si trasforma inesorabilmente in una crisi democratica verso la quale marciamo tutti a passo spedito guidati appunto dalla confusione del partito di Franceschini.

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