Cultura e Spettacoli

L’odio antifascista colpisce ancora

Egregio Eugenio Di Rienzo, le scrivo per ringraziarLa dell’articolo scritto il 12 marzo scorso riguardante il ricorso presentato da mio padre alla Corte Internazionale dell’Aia. Abbiamo molto apprezzato le parole che ha avuto la bontà e il coraggio di scrivere sul Giornale.
Come può immaginare, la storia della nostra famiglia ha toccato anche me. Io sono arruolato nell’Arma dei Carabinieri dal 1999 e presto tutt’ora servizio presso il Nucleo Radiomobile di Bobbio (Piacenza). Ricordo ancora con amarezza il periodo in cui fui arruolato nella Benemerita, quando la notizia trapelò in paese - Rustigazzo - arrivarono a casa mia alcune telefonate anonime contro di me, «il nipote del fascista». E da quanto ho saputo certe «rimostranze» furono manifestate anche nel comando Stazione Carabinieri cui fui assegnato. Ma preferisco non sapere se sia vero e no...
Come vede, caro Di Rienzo, certe macchie non scompaiono nemmeno dopo sessant’anni. Mio padre Giuseppe nella sua vita ha patito ben di peggio. Qualche volta, in rare occasioni, ha raccontato parte delle angherie subite quando era bambino. Mia nonna, mancata lo scorso aprile, mi raccontò di percosse inflitte a papà quando andava a scuola, e di persone che tenevano lontani i loro figli da lui dicendo che era «ammalato» di qualche patologia strana e contagiosa...
Mia zia Luisa, la sorella di papà, una volta mi raccontò che in giovane età, attorno ai 18-20 anni, una domenica si recò dopo tanti anni che non la frequentava più nella chiesa del suo paese. Portava al collo una catenella d’oro con un piccolo ciondolo. Qualcuno la avvicinò - non mi disse mai chi fosse - e prendendole la catenina in mano come per strapparla, le disse in dialetto piacentino «e qusta che, chi t’la data?», «e questa qui, chi te l’ha data?», per dire che la figlia di un fascista non poteva indossare nulla che avesse un qualche valore...
Ricordo i racconti di mia nonna Pierina, di quando in lacrime mi parlava di quando nonno Lodovico fu rapito e ucciso dai partigiani, e di quando andò a recuperarne la salma insieme al mio bisnonno Giovanni, suo padre. Lo trovarono martoriato e crivellato di colpi. Indosso aveva ancora i suoi cenci (mio nonno era un terziario francescano). Dopo pochi giorni che lo avevano seppellito, mia nonna mi raccontò che alcuni dei «briganti» - così li chiamava lei - passò in località Mulino del Duca ove il mio bisnonno aveva un mulino: lei stava lavando i panni nel torrente Rugarlo, due o tre di loro portando a tracolla dei fucili si fermarono, la guardarono e le chiesero da bere. La nonna, capendo cosa stava succedendo e avendo i suoi due figli in casa, andò in lacrime a prendere da bere, senza proferire parola, sapendo che se si fosse azzardata a parlare avrebbe messo in pericolo la sua stessa vita e quella dei bambini. A quel punto i partigiani sicuri del silenzio di mia nonna si allontanarono dicendole: «E per quella cosa, hai capito vero?». Lei piangendo rispose solo «Sì». E avrei ancora tante altre cose da raccontare...
Mio padre ha fondato l’«Associazione vittime dei partigiani», a Piacenza. Spero che la questione aperta con la sua lettera alla Corte Internazionale dell’Aia non si chiuda con un nulla di fatto. Quanto a Lei, caro Di Rienzo, il suo articolo è per noi - per la memoria di mio nonno Lodovico e per tutti coloro che come lui sono caduti abbracciando quella che da qualcuno era ritenuta una «causa sbagliata» - una ventata di giustizia, e di onore.
Io non so chi, giudicando una guerra, possa concedere o togliere la ragione delle scelte che ogni combattente fa, secondo la propria morale e le proprie convinzioni. Io so che mio nonno fece un giuramento e quel giuramento lo ritenne vincolante fino all’estremo sacrificio. Io stesso ho giurato fedeltà alla Patria per due volte, prima da Alpino e poi da Carabiniere. E sono orgoglioso della divisa che porto e del Giuramento che ho fatto.
Il 4 novembre sono voluto andare con papà al Sacrario di Redipuglia. Ho salito quei gradini da solo, in silenzio, indossando il mio cappello da Alpino... Sono arrivato nella chiesetta che lo sovrasta, ed entrando ho letto queste parole scritte sui due lati della chiesa: «Queste pareti custodiscono trentamila Militi Ignoti a noi ma Noti a Dio». Ancora adesso penso a loro, a mio nonno e a tutti i morti, dell’una e dell’altra parte. Mi inginocchiai in quel posto sacro e piansi.

Piansi in silenzio per alcuni minuti, prima di salutarli militarmente congedandomi da loro.

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