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L’ombra dell’ispettore francese

Mario Sechi
da Roma

Sepolto dalle smentite, qualcuno ha pensato di mettere una pietra tombale sul Niger-gate. In realtà la vicenda è più che mai aperta, solo che il filone del complotto neocon per fabbricare prove false per andare in guerra in Irak è morto nella culla. La storia non è da archiviare perché una volta tumulato lo scenario costruito dal partito politico-mediatico «anti Tre B» (Bush, Blair, Berlusconi) è più che mai vivo quello che è ricco di riscontri, fatti e testimonianze non smentibili: lo strano ruolo della Francia, dei suoi servizi segreti e di un gruppo di personaggi ostili all’amministrazione Bush che hanno manipolato la verità.
Il settimanale americano Newsweek l’altro ieri ha ripreso le anticipazioni del Giornale sulla fonte – probabilmente la colomba del Dipartimento di Stato Richard Armitage - che per prima avrebbe raccontato alla star del Washington Post, Bob Woodward, l’identità di Valerie Plame, agente della Cia e moglie dell’ambasciatore Wilson, il diplomatico che dopo esser stato in Niger a caccia di prove sulla vendita di uranio a Saddam entrò in rotta di collisione con la Casa Bianca. Una rivelazione – se confermata – destinata a lasciare un segno su tutta la storia del Niger-gate. Perché andato a carte quarantotto il complotto neoconservatore, resta da sviluppare il plot della Francia, contraria all’intervento in Irak, ma a conoscenza dei falsi sulle lettere dell’ambasciata nigerina a Roma affidati a un suo agente segreto. Ieri, poi, alla Cnn Woodward s’è lasciato fuggire che la sua «gola profonda» è di sesso maschile.
Indipendentemente dal fatto che Newsweek e il Giornale abbiano ragione su Armitage, altri fatti inediti inguaiano la Francia. O meglio, sono già stati riferiti ma il grande pubblico non li conosce perché l’autore di un libro intitolato Oppdraget (L’incarico) ha trovato un solo editore disposto a pubblicare una storia diversa da quella «ufficiale», un editore norvegese.
Chi è l’autore? Si chiama Jafar Dhia Jafar, ed era il capo del programma nucleare di Saddam Hussein. Aveva un filo diretto con il raìs, con Tarek Aziz, con tutto l’establishment, dunque non proprio l’ultimo arrivato. Secondo l’Aiea sapeva tutto sulle armi di distruzione di massa irachene e proprio con l’Agenzia atomica internazionale Jafar ha dovuto fare i conti, in particolare con il signor Jacques Bauté, già capo della missione Onu in Irak (Invo). E proprio sui rapporti Jafar-Bauté emergono retroscena inquietanti sul ruolo, già oscuro, ricoperto dai francesi nel Niger-gate.
Il 20 gennaio 2003 – racconta Jafar – Bauté gli chiede spiegazioni specifiche sull’uranio. Jafar casca dalle nuvole. Bouté insiste. Jafar gli risponde piccato: «Fammi vedere i documenti che mi accusano». Replica del capo dell’Invo: «L’Aiea li ha avuti da un certo Paese a condizione di non rivelarli all’Irak». Jafar non la prende bene, e taglia il discorso: «Se non sono del nostro governo perché non possiamo vederli?». Semplice. Perché Bauté, in realtà, i documenti non li aveva ancora ricevuti ufficialmente dagli americani. Ne prenderà visione solo il 4 febbraio, e guardacaso le notizie contenute corrisponderanno alle famigerate lettere false di Rocco Martino (agente degli 007 di Parigi). Domanda: Bauté bluffava? O aveva in mano qualcos’altro? O addirittura disponeva del carteggio taroccato con largo anticipo?
Il direttore dell’Invo gioca, infatti, uno strano ruolo. Nel momento in cui parla con Jafar non ha la documentazione ufficiale, che poi corrisponde a quella falsa fabbricata all’ambasciata nigerina di Roma. Il report del Senato americano sul pre-war in Irak parla chiaro, e smentisce Bauté: «Il 4 febbraio 2003 il governo statunitense passò copia elettronica dei documenti Irak-Niger a (omissis) dell’Aiea. Poiché il direttore dell’Invo (Bauté, ndr) si trovava in quel periodo a New York, il governo statunitense fornì anche a lui i documenti a New York». Le date, e il comportamento di Bauté, non tornano. A questo punto il povero Jafar si domanda: «Perché Bauté e colleghi hanno impiegato dall’8 gennaio al 7 marzo 2003 per dire al Consiglio di sicurezza che i documenti erano falsi?». Bella domanda. Una risposta potrebbe rintracciarsi in una coincidenza lessicale, più precisamente nel riferimento al «servizio straniero» o al «Paese straniero» che torna sia nelle espressioni di Bauté sia nelle note di intelligence.
Il 27 gennaio del 2003 infatti la Cia scrive: «Un altro servizio straniero aveva notizie di tentativi di acquisto di uranio dal Niger risalenti al 1999». Lo stesso «servizio straniero» riferito a un «Paese straniero» ricompare nella frase di Bauté a Jafar quando nell’incontro suddetto del 20 gennaio 2003. Quel «certo Paese» è la Francia, lo sanno tutti, Bauté lo sa bene, Bauté è francese. Lo sa perché proprio la Francia – che controlla le miniere di uranio in Niger – aveva più volte segnalato i tentativi di Saddam di procurarsi yellowcake alla fine degli anni Novanta. Stessa musica suonata nelle lettere false dell’ambasciata nigerina a Roma che finiscono nelle mani di Rocco Martino, spia della Dgse francese in Italia.
Se tutto sembra tornare, un ulteriore indizio grave è legato all’ennesima coincidenza inquietante: il 1° marzo 2003 l’ex ispettore dell’Aiea, David Albright, anticipa alla tv tedesca Ard le segretissime conclusioni dell’Agenzia atomica internazionale sul falso dossier dell’uranio. Come faceva a sapere del risultato top secret? Per caso gliel’ha sussurrato l’ex collega Jacques Bauté con il quale, in precedenza, era stato in Irak per conto dell’Onu? E ancora. Il giorno dopo che l’Aiea sbugiarda ufficialmente i documenti contraffatti sul link atomico Niger-Irak, il governo francese sbugiarda se stesso, confermando a Washington che i carteggi su cui Parigi si basava per affermare l’esistenza dei traffici in Niger erano gli stessi consegnati all’Invo. Cioè a Bauté, cioè quelli falsi delle lettere di Martino che i francesi avevano sempre negato di avere mai posseduto, sostenendo che le loro informazioni su quei traffici di uranio erano di «origine nazionale».

Se Bauté ha mentito, bisognerebbe chiedersi perché l’ha fatto.

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