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L'Alto Adige reinventato da Lageder

A lois Lageder. Nome e cognome dell'Alto Adige in bottiglia. Un uomo dallo sguardo limpido come un ghiacciaio, che giovanissimo prese in mano l'azienda di famiglia orfana del padre Alois III (lui è il IV) e la fece diventare una realtà imprescindibile dell'enologia altoatesina. All'epoca, eravamo negli anni Settanta, puntare sulla qualità era una decisione coraggiosa. Ma i fatti dettero ragione ad Alois e pian piano tutti i produttori ambiziosi della provincia (a cominciare da quelli fidatissimi che gli conferiscono le uve implementando i 50 ettari di vigneti di proprietà) si accodarono. Così come ora stanno facendo con la sua scelta di convertire progressivamente tutta la produzione ai criteri biologici e dinamici.

Lageder produce una raffica di vini significativi. Divisi in tre linee: i classici sono l'enciclopedia del vino altoatesino, sei bianchi, quattro rossi e un rosé di scuola; i terroir declinano i vitigni classici anche in uvaggio valorizzando le differenze tra i vari territori; e i «masi» sono i Grand Cru dell'azienda, alcuni con le stimamte della leggenda. Come il Römigberg dal lago di Caldaro, gli uvaggi Casòn bianco (Pinot Grigio, Chardonnay e Viognier) e rosso (Merlot, Cabernet Sauvignon e Lagrein), il Pinot Nero Krafuss, il Lagrein Lindenburg, il Merlot MM, il Cabernet Sauvignon Cor Römigberg, il Cabernet Löwengang. Ci ha particolarmente entusiasmato l'assaggio dello Chardonnay Löwengang, che l'anno prossimo festeggerà il suo trentennale. Un bianco pieno, corposo, muscolare, dal naso elegante e ricco, in bocca un pugno in un guanto di velluto, con un legno che riesce a essere protagonista senza però rubare la scena al resto. Un vino che ha di fronte a sé quasi dieci anni di invecchiamento.

Uno dei grandi bianchi italiani, insomma.

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