Cultura e Spettacoli

"L'America ha l'Alzheimer, non ricorda il suo passato"

L'autore di "Non siamo più noi stessi" è a Roma, a Letterature: "Il mio Paese è malato, rischia la fine di mio padre"

"L'America ha l'Alzheimer, non ricorda il suo passato"

Eileen Tumulty è un nome che resterà nella letteratura americana. Eileen Tumulty è la protagonista del romanzo Non siamo più noi stessi (Neri Pozza, pagg. 640, euro 19), opera di debutto del quarantenne Matthew Thomas. Ha la forza e l'espressività di Olive Kitteridge, la profonda umanità di Clarissa Dalloway. Eileen Tumulty, però, ha qualcosa di più. Ha un sogno. Per lei che è americana di prima generazione (genitori irlandesi), il sogno è molto semplicemente un'ascesa sociale di stampo borghese. Insomma è una casa (villino) nel borghese quartiere di Bronxville. E quel sogno le dà forza e determinazione. Anche se forza e determinazione a volte non bastano ad arginare quell'imprevedibile caos che solitamente è la vita. Il libro in America ha avuto un successo maggiore alle più rosee aspettative. E ora l'autore è in Italia per presentarlo e per partecipare a Letterature , il festival internazionale di Roma che lo vedrà questa sera protagonista insieme con i nostri Donato Carrisi e Antonio Manzini.

Come nel più tradizionale dei romanzi realisti, la protagonista ha un sogno di ascesa sociale. Ma vive ancora nel ventesimo secolo. Oggi resiste ancora il sogno borghese di migliorarsi socialmente nel suo Paese?

«In un grande Paese come il mio la varietà di situazioni impedirebbe di generalizzare. Però è un fatto che quel desiderio di ascesa sociale è ormai presente solo in chi affolla le nuove ondate migratorie. Vengono da situazioni così penose che qui da noi trovano comunque una condizione migliore. È ascesa sociale già questa. Però esiste un problema culturale».

Quale?

«Quella che da noi viene chiamata “politica nativista” o “identitaria” rischia di rendere difficile l'integrazione con queste nuove onde migratorie che non provengono più dai Paesi europei o dell'America Latina».

Il sogno americano di Eileen è una casa a Bronxville. Oggi la classe media cosa sogna? E soprattutto cosa teme?

«C'è qualcosa di irrazionalmente magico nella società americana. E quel qualcosa è la convinzione fin troppo radicata di poter diventare milionari, magari anche semplicemente per una fortunata coincidenza come può essere una lotteria. Detto questo, però, alla classe media di oggi non resta che sognare di vivere come la generazione che l'ha preceduta. Gli americani della classe media sognano le sicurezze che avevano i loro padri: una casa di proprietà, una pensione, e la possibilità di evitare ipoteche per trovare i soldi con cui mandare i figli all'università. Alla fine di tutto, però, la paura più grossa della classe media oggi è proprio la sua stessa estinzione a favore di una piccola élite che controlla tutto e tutti».

Il marito di Eileen cade nella drammatica spirale dell'Alzheimer. Come mai ha scelto un tema così spinoso per il suo romanzo d'esordio?

«Mio padre è morto di Alzheimer. Ho resistito per anni all'idea di parlare di questo, convinto - come sono ancora - che uno scrittore non dovrebbe mai partire dalle questioni autobiografiche. Però poi col tempo ho capito che proprio l'Alzheimer poteva rappresentare una potente metafora di quello che oggi rischia l'America. Anzi più precisamente la classe dirigente di questo Paese».

Vale a dire?

«La perdita della memoria, l'abbandonarsi alla dittatura di un caos che elimina ogni prospettiva storica e ogni valore. Gli intellettuali da noi stanno progressivamente perdendo la capacità di filtrare il presente dal passato. Con conseguenze, ahinoi, di sicuro non positive».

Nel romanzo mancano colpi di scena, la narrazione è lineare, con momenti di autentica commozione. Eppure il successo è stato straordinario. A cosa lo deve secondo lei?

«Come studente di letteratura e di creative writing ho sempre avuto il massimo rispetto per quello che da noi chiamiamo high modernism , con le sue ardite sperimentazioni. Però avevo bisogno di raccontare la vita emotiva dei personaggi e quindi il loro progressivo mutare. Forse è in questo che va cercata la ragione del successo. I lettori si sono sentiti più coinvolti».

Hanno paragonato il suo romanzo a quelli di Franzen, Mordecai Richler e Doctorow. Cosa ne pensa?

«Da quando ho deciso di scrivere Non siamo più noi stessi ho deliberatamente evitato di leggere i libri con personaggi malati di Parkinson o Alzheimer per non farmi condizionare».

Quindi non ha letto Franzen?

«Ho da poco finito le Correzioni.

Ha scelto un registro satirico che io non potevo proprio usare».

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