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L'antisemitismo che anche oggi punisce gli ebrei

Caro Granzotto, le autorità ebraiche invitano a non indossare la kippah, lo zucchetto, in strada per non diventare bersaglio di attacchi da parte di estremisti islamici. Al rabbino Zvi Ammar che dice «non mettere la kippah può salvare delle vite umane e niente è più importante di questo», in molti rispondono che questa è una resa. E' una resa?Filippo Giandomenicoe-mail È sconfortante leggere l'appello a limitare l'uso della keppiah, ma è un fatto che chi oggi indossa lo zucchetto mette la propria vita più a rischio. Lo so, caro Giandomenico: è diventato luogo comune che alle aggressioni in nome di Allah Akbar si debba rispondere con l'esibizione della propria identità culturale e religiosa. Ma un conto sono i collettivi «Je suis Charlie», l'una tantum di massa che serve a mettersi a posto la coscienza, più che altro. Un ben altro conto è, ostentando il simbolo della propria identità culturale e religiosa, farsi individualmente e quotidianamente più facile bersaglio dei tagliagola islamici. E poi, resa è l'abbandonare ogni difesa davanti al nemico: ma su quale difesa - qui non parliamo di armi, è ovvio, ma di sostegno, di rispetto, di solidarietà d'animo, di ciò che è d'aiuto moralmente - possono contare gli ebrei? Non passa giorno che non giunga notizia di una nuova iniziativa dell'antisemitismo più o meno mascherato da antisionismo che serpeggia nel seno della società europea. Università, editori, giornali, banche, centri di ricerca, industrie e amministrazioni statali, stanno ghettizzando o mettendo al bando tutto ciò che è collegato all'ebraismo o al sionismo. La pressione antisemita è tale che solo dalla Francia lo scorso anno quasi 10 mila ebrei hanno lasciato il paese per trasferirsi in Israele.

Dove certamente non saranno più al riparo dai kalashnikov e dai coltelli, ma vi trovano quel sostegno civile e morale che aiuta - molto più concretamente di una sfilata all'insegna del «Je suis juif» - a fronteggiarne con cuore saldo la minaccia.

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