Controcultura

L'artista felice che si portò a casa il '900

Una visita nell'abitazione museo del grande incisore e scrittore toscano. Mentre s'inizia a schedare il suo archivio

L'artista felice che si portò a casa il '900

Dal nostro inviato a Pistoia

La via di Bigiano, affacciata alla quale fa un piccolo passo indietro la casa museo Sigfrido Bartolini, tra il centro e la periferia nord di Pistoia, è una stradina riservata, lontano dal traffico e dalla modernità. A suo modo antimoderno, esule in Patria ed elegantemente riservato, Sigfrido Bartolini (1932-2007), quando ci venne ad abitare con la moglie, Pina Licatese («siamo entrati qui nel '66, ci eravamo sposati nel '59, ce la siamo arredata noi, stanza dopo stanza, anche le librerie costruite con le assi di legno...»), scelse il posto con cura. A pochi passi, da una parte c'era - e c'è ancora - il cuore artistico della città, declinato secondo l'amata classicità: il Duomo, il Battistero, la chiesa di San Giovanni con la quattrocentesca Visitazione di Luca della Robbia («fu mio marito il primo a dire, negli anni '50, che si doveva esporre in un modo che la gente potesse girarci attorno, per vederla in ogni dettaglio, ma niente... Poi quest'anno è arrivato un grande architetto americano e ha fatto la stessa cosa...») e dall'altra c'era - come c'è ancora - la felice campagna pistoiese, che ha percorso e memorizzato mille volte, con le chiesette e i casolari che ha dipinto tutta la vita.

Ecco. La casa di Sigfrido Bartolini, scrittore, critico e artista, fra i massimi incisori del '900, è stata la sua vita e continua a esserlo grazie alla vedova che (con la figlia Simonetta) l'ha trasformata in museo, continuando a viverci. «Lui aveva un forte senso di conservazione, sapeva quale era l'importanza della memoria, sua e degli altri... Ecco perché dopo la sua morte ho cominciato a riordinare tutto il materiale di Sigfrido, le sue opere e quelle dei suoi amici, le sue carte e i suoi libri, tenendo la casa aperta al pubblico...». Prego, accomodatevi.

Abitazione per più di quarant'anni («è l'immagine del suo gusto estetico»), laboratorio d'arte («non ha mai voluto uno studio fuori di qui, diceva che gli sarebbe sembrato di andare in ufficio...»), raccolta di opere e oggetti («per anni abbiamo comprato anfore in ogni posto da cui passavamo...»), salotto da cui sono passati gli amici scrittori e artisti. Così Sigfrido Bartolini - ultimo di tre fratelli, nato nel '32, modesta famiglia di operai di Pistoia, diploma all'Istituto d'arte di Firenze nel '55 - si è portato in casa il Novecento.

Il piano terreno è il cuore. Nel grande salotto ecco il calco in gesso a misura reale della Venere di Milo («se la fece fare negli anni '70 dall'Istituto d'arte di Firenze: li producevano per le gipsoteche, lui ne volle uno per sé, per ricordarsi ogni giorno l'idea classica di Bellezza»), gli antichi oggetti della tradizione popolare («quella che per lui era il prodotto dell'aristocrazia artigiana italiana che ormai stiamo perdendo»): il caminetto in pietra umbra portato qui da Todi, i tappetti sardi, il tavolino lavorato coi cementi colorati secondo una speciale tecnica cecoslovacca... e poi, alle pareti, le sue opere. La serie di Monotipi («sono pezzi unici, oli su carta stampati a mano con un procedimento particolare: li faceva di notte, negli anni '50, quando di giorno lavorava per una ditta di decorazione»), i dipinti coi famosi Casolari degli anni Sessanta, qualcuna delle migliaia di xilografie, acqueforti, acquetinte e litografie che ha inciso in sessant'anni di lavoro, le Marine cui si è dedicato fino agli ultimissimi anni. E poi le opere dei suoi maestri e amici, come Sironi, Soffici, Viani: c'è un ritratto di Morandi a puntasecca di Mino Maccari, un disegno di Boldini, un'acquaforte di Telemaco Signorini, litografie di De Chirico, gli artisti della «scuola pistoiese», una terracotta di Romano Romanelli... E se un'ala della casa è dedicata all'arte, l'altra - con lo studio elegantissimo - è dedicata alla letteratura con gli oltre settemila volumi che hanno segnato la sua formazione: i «grigi» della Bur, la filosofia di Giorgio Colli, i testi di Evola («lo conobbe tardi, e lo trovò un uomo completamente diverso da quello che ne avevano fatto gli evoliani»), i libri dell'amico Ernst Jünger (molti dedicati, con ancora infilati i segnalibri nelle pagine più belle), la collana Rusconi dedicata agli indiani d'America («una civiltà che mio marito amava, e della cui eccezionalità gli Stati Uniti non hanno tenuto conto»)... e anche qui, alle pareti, i ricordi degli amici: le puntesecche di Luigi Bartolini, («nessuna parentela...»), l'unica incisione lasciataci da Leo Longanesi («è un'acquaforte del '32»), un quadretto di Italo Cremona, una litografia di Soffici stampata su entrambi i lati con due dediche, una per Sigfrido e una per Pina. «Diceva che così non ci saremmo mai separati. E in effetti in tanti anni vissuti insieme non ci abbiamo mai pensato...».

Una vita salita e discesa sempre insieme. Sulle scale sono appesi tre calchi dei fregi del Partenone («fu un incubo: sono pesantissimi, gli operai montarono i ponteggi per dipingere le pareti, noi li usammo per fissare i gessi») e un cartone preparatorio dell'ultima opera di Sigfrido, del 2006: le grandi quattordici vetrate alte tre metri e mezzo per la chiesa dell'Immacolata, a neanche duecento metri da qui. «Vada a visitarla... vedrà che meraviglia...».

La meraviglia continua al piano nobile, il braccio della casa. Qui c'è lo studio-laboratorio: ecco il banco per le incisioni («lo disegnò e costruì lui stesso negli anni '50») dove nacque il suo capolavoro assoluto, durato dodici anni: le 309 xilografie per il Pinocchio illustrato più bello della storia dell'editoria e pubblicato nel 1983 come edizione del centenario dalla Fondazione nazionale Carlo Collodi. Un libro così bello da essere stato esposto al Moma di New York. «Guardi, lì ci sono le matrici in legno. Lì il modello del Burattino che si costruì lui, durante un'estate, per poterlo disegnare nei particolari. Fece anche il cappello di mollica di pane... Lì c'è il suo basco nero, che portò sempre fin da ragazzo. E lì, in quella cassettina in legno, c'è lui. Le sue ceneri. Le ho tenute vicino ai suoi oggetti di lavoro. Sigfrido era il suo lavoro».

E poi, in alto, la testa. La soffitta delle meraviglie. Una mansarda così poco maudit e così razionale... «Sigfrido era ordinatissimo, e conservava tutto». È il vero monumento di carta della famiglia Bartolini. Ci sono le collezioni originali delle riviste storiche del '900: Primato, Lacerba, Il Frontespizio, La Fiera letteraria, Il Borghese, il Candido. Ci sono bozze, manoscritti, i menabò di tutti i suoi libri illustrati, centinaia di fotografie, i cataloghi d'arte (lui firmò monografie su Soffici, Sironi, Rosai, Achille Lega, Italo Cremona, Giovanni Boldini, Arturo Stanghellini...), la sua preziosa biblioteca di libri sulla grafica, e soprattutto il monumentale epistolario, che una volta era stipato in un enorme baule da viaggio, che è ancora qui, e ora è diviso in cartellette e faldoni: quattromila lettere di Prezzolini, Del Noce, Baldacci, Orsola Nemi, Henry Furst, Orfeo Tamburi, Vintila Horia e cento altri... (il prossimo mese - ecco la notizia - comincia il lavoro di censimento e inventariazione del carteggio, sostenuto dalla Sovrintendenza archivistica e bibliografica della Toscana).

E ancora. Ci sono i suoi libri pubblicati, racconti e saggi, ma sopratutto le tre edizioni del micidiale pamphlet La Grande Impostura che raccoglie gli articoli di critica d'arte scritti tra gli anni '90 e Duemila per l'Indipendente, il Giornale e Libero e svela i «Fasti e misfatti dell'arte moderna e contemporanea», e poi il pezzo più pregiato: il suo diario inedito («scriveva su grossi quaderni A4, iniziò nel 1954 e continuò fino alla morte, sono oltre duemila pagine, io le ho battute tutte a computer»). Titolo (scelto da Sigfrido stesso): Disperata felicità. Un ossimoro bellissimo in cui c'è dentro tutto l'uomo e tutto l'artista.

Uomo e artista sprezzante con chi deteneva il potere, empatico con chi ne era vittima, torturato per una vita - lui, incisore, per il quale le mani erano tutto - da un'artrite reumatoide cui non permise di cambiargli il carattere scherzoso («quando provava troppo dolore, cantava»), artista di una pittura fatta di alti silenzi - lui, che adorava il discorrere - e attese metafisiche - lui, che aveva un forte senso del sacro -, Sigfrido Bartolini faceva parte di quel manipolo di inattuali e antimoderni (quanti compagni di solitudine ebbe, tra i coetanei e i più giovani: Giano Accame, Piero Buscaroli, Fausto Gianfranceschi, Stenio Solinas...), sempre dall'altra parte rispetto alla politica vincente, organica e di partito, e che invece difendeva ideali di tradizione, civiltà e cultura troppo fuori moda nel nostro Paese per sfilare sulle passerelle intellettuali che portano al Potere. E forse tutto questo gli toglieva speranza, appunto.

Ma non la felicità.

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