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"L'assassino di Falcone l'ho preso grazie alla foto che tenevo sulla scrivania"

L'arresto di Giovanni Brusca ha dato una svolta alla lotta alla mafia: "Per mesi ho guardato l'immagine della sua famiglia. Il figlio mi ha portato da lui"

"L'assassino di Falcone l'ho preso grazie alla foto che tenevo sulla scrivania"

«Ho scavalcato il cancello, lui era alla finestra. Si è sporto leggermente. Ci siamo guardati per un attimo, forse una frazione di secondo. In quel momento ho realizzato che lo avevamo preso. Avevamo catturato Giovanni Brusca». Una scena che nella mente di Claudio Sanfilippo è indelebile, anche a distanza di 20 anni.

Erano anni difficili. Da tempo la mafia aveva dichiarato guerra allo Stato. La strategia stragista di Cosa Nostra aveva messo in ginocchio l'Italia e l'eco delle bombe che nel 1992 avevano ucciso Falcone e Borsellino faceva ancora rumore. Sopratutto in chi come lui la mafia la combatteva sul campo. Ha fatto carriera Claudio Sanfilippo, ora non scavalca più cancelli e non passa le notti in appostamento a caccia di mostri. È uno di quei personaggi che, senza apparire, magari con indosso un passamontagna, ha contribuito a scrivere una pagina importante della storia del nostro Paese. Lo hanno ribattezzato «acchiappamafiosi», ma è e rimane soprattutto uno sbirro. «Lo sono da sempre, sbirro». Ma quell'etichetta continua a portarsela dietro. E a ricordarglielo, nel suo ufficio c'è la copertina del Time che ritrae Giovanni Brusca in manette mentre esce dal suo ufficio della squadra mobile di Palermo, prima di essere portato in carcere all'Ucciardone.

Questo sbirro palermitano ha lo sguardo di chi ne ha viste tante. Un pizzico di diffidenza tipica della gente di mare. L'immancabile sigaro toscano tra le dita. Nel suo ufficio di Catania dov'è vice questore vicario, ha appeso le frasi che guidano il suo lavoro. «Senza fretta, senza tregua», il suo motto preferito da quando guidava la sezione catturandi della squadra mobile di Palermo. E nel mirino, sopra a tutti, c'era lui, Giovanni Brusca. Uno dei boss mafiosi più violenti e sanguinari. Lo «scannacristiani», il «porco». Uno che non ha avuto nessuno scrupolo a rapire, uccidere e sciogliere nell'acido un ragazzino, Giuseppe Di Matteo, perché il padre Santino ha osato collaborare con la giustizia. Uno che ha confessato di aver eseguito personalmente almeno cento omicidi. Ma, soprattutto, Giovanni Brusca rimane per tutti il boia di Capaci, l'uomo che ha premuto l'interruttore della bomba che ha ucciso Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. E per chi ha lavorato mesi per poterlo catturare questa è stata una spinta fortissima. «È a loro che ho pensato subito dopo averlo preso», ammette Sanfilippo.

Quella notte lui era lì, a guidare i suoi uomini. Il primo ad entrare nella villetta dove si nascondeva il boss. «È stata un'indagine in cui si sono mischiate metodologie tradizionali e innovative. Era il 1996, si usavano i primi cellulari gsm. E Brusca ne aveva uno. Siamo riusciti ad individuare la sua utenza e ad intercettarlo. Tutte le sere alle 21 in punto faceva una telefonata, poi lo spegneva». Tanto bastò per capire dove si nascondeva. Ma l'utilizzo di tecnologie all'epoca nuove non era sufficiente. Servivano il lavoro sotto traccia e il fiuto dello sbirro. «Sapevamo che era a Cannatello, un luogo di villeggiatura vicino ad Agrigento, ma nella zona ci sono diverse villette simili. Allora un pomeriggio andai lì con un collega, in macchina. Facemmo un giro di perlustrazione intorno alle villette senza dare nell'occhio e, all'improvviso, percorrendo una stradina sulla mia destra vidi un bambino che giocava nel giardino della villa. Dissi al collega di andare via subito perché lo avevamo trovato. Quel bambino era il figlio di Giovanni Brusca. Avevo la sua fotografia sulla mia scrivania, come quelle di tutti i suoi familiari». E allora altri appostamenti notturni, una luce che si accende proprio in quella villa, un uomo che si avvicina alla finestra con un cellulare all'orecchio. Era lui, poteva scattare il blitz.

Un arresto che ha fatto epoca. Come le immagini dei ragazzi della mobile che, con ancora i passamontagna indosso, fanno rientro in questura suonando i clacson ed esultando fuori dai finestrini delle auto. Gioia pura. «Che dimostra quanto ci fosse in gioco. La gioia di un gruppo che per mesi si è dimenticato delle famiglie, del tempo libero, della vita privata». Perché un buono sbirro non può pensare di fare tutto da solo. Deve fare squadra. «E noi a Palermo eravamo una grandissima squadra. Compatta, coesa. Altro che corvi e invidie». Una squadra forte, ma il capo ha delle responsabilità. Come quella di passare tutta la notte insieme al mafioso che per mesi ha inseguito, temuto e desiderato di prendere. «Prima di andare in carcere è stato tutta la notte nel mio ufficio. Ho parlato per ore, gli ho fatto una specie di lavaggio del cervello per cercare di convincerlo a collaborare. Ma lui nemmeno rispondeva. Quando lo hanno portato via però si è fermato sulla porta, mi ha guardato e ha detto. Dotto', se dovesse accadere sarà il primo a saperlo. Due giorni dopo il direttore dell'Ucciardone mi ha chiamato. Brusca voleva parlare con me».

Da quel giorno il boss ha iniziato a collaborare con la giustizia, contribuendo alla cattura di altri super latitanti. Nel curriculum delle catture di Sanfilippo ci sono altri nomi di spicco della mafia come Pietro Aglieri, il killer di Paolo Borsellino («Il pentito Francesco Marino Mannoia mi disse che non lo avremmo preso perché era troppo intelligente. Mi fece girare i cosiddetti. E alla fine abbiamo preso anche lui»), Carlo Greco, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Francesco Tagliavia ed Emanuele Grigoli, l'assassino di padre Puglisi. E altri ancora. Una vita in divisa, interamente dedicata al servizio dello Stato. «È un lavoro meraviglioso. Lo dico sempre ai giovani poliziotti». Ma una vita così non ammette altro. Minacce, scorte e pericoli costanti significano niente famiglia e pochissimi amici. «Ho anteposto la mia professione a tutto. È una scelta di vita. Non puoi permetterti un lato debole. E devi tutelare chi ti sta accanto». Eppure se gli chiedi se ne è valsa la pena, non ha nessun dubbio. «Rifarei tutto. Nello stesso modo, con gli stessi gesti e le stesse modalità».

Senza fretta, senza tregua. E senza incertezze. Lo sbirro è diventato acchiappamafiosi. È stato nominato vice questore, primo dirigente, dirigente superiore. Ha fatto carriera. Ma resta sbirro.

Orgoglioso di esserlo.

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