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Ma lealtà è non segnare con la mano

Così, al culmine del delirio, abbiamo anche una nuova «notte dell’Innominato». Daniele De Rossi come il personaggio manzoniano: la colpa, la consapevolezza, la crisi, la conversione e l’espiazione. Questo si dice a Roma, questo vorrebbe evocare Walter Veltroni, così nel tracimante diluvio di buonismo si dipinge a tinte forti il gesto del centrocampista giallorosso. Ma l’espiazione dov’è? L’espiazione sarebbe stata un’ammonizione magari severa e leggiadramente cinica, ma ineccepibile. Perché De Rossi non è stato leale, è stato intelligente.
Intelligente nel senso più moderno del termine, ragazzo cresciuto a playstation e dvd, capace di distinguere fra un iPod e un monopattino. Quindi allenato ad avere a che fare con il supremo giudice: la televisione. Una televisione che tutto vede, tutto rappresenta, tutto moviolizza. E tutto, indistintamente, celebra o punisce. Il suo gesto, rivisto mille volte, lo avrebbe condannato alla gogna. E anche alla squalifica postuma. Allora De Rossi che fa? Giustamente si pente, coglie l’attimo e si autodenuncia. Lo fa a testa alta, senza ascoltare qualche fesso con la sua stessa maglia che gli sta dicendo di tirare dritto e far finta di niente. De Rossi si rende conto che nell’era dello scanner le sceneggiate malviste hanno le gambe corte. Bravo, così si fa, l’intelligenza ha un suo peso planetario (tranne che in qualche cantone della Svizzera, chioserebbe Woody Allen). Il passo successivo sarebbe non fare gol con la mano.
«Era un gesto istintivo», giustificano la furbata i fedelissimi. Mai visto un giocatore di basket professionista tirare istintivamente con un piede o un nuotatore tuffarsi istintivamente sull’asfalto.

L’unico che istintivamente non ci ha capito niente (e quindi non vedeva l’ora di perdonare) era l’arbitro.

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