Un lenzuolo pietoso sul decreto Bersani

Al Senato, settimana di affanni quella che oggi comincia. Ben due decreti scadono domenica e lunedì prossimi: quello sull’Afghanistan (il primo aprile) e quello delle cosiddette liberalizzazioni (il 2 aprile). Dunque, due voti decisivi. Passeranno forse ambedue, ma il governo ci arriverà col fiato grosso. Domani toccherà al decreto sull’Afghanistan, poi da mercoledì si discuterà, con fiducia inevitabile, un decreto singolare e controverso, protagonista un ministro, non proprio il peggiore del governo Prodi, che tiene a conquistarsi la qualifica di «liberalizzatore».
È proprio a questo secondo decreto che voglio dedicare oggi il commento. Sono un liberale, com’è noto, liberista e privatizzatore dichiarato (mi impegnai fortemente per il primo decreto sulle privatizzazioni nel 1992, quando le varie sinistre, da quella marxista a quella cattolica, si opposero altrettanto fortemente), e per me è quasi un dovere analizzare la «lenzuolata» del ministro Bersani.
Lealmente dico subito che Bersani lo considero uno dei più seri politici di sinistra. E però vuol far passare per provvedimenti liberali e liberisti piccole misure che sono nient’altro che regolamentazioni, non tutte opportune e salutari peraltro. Non solo: sotto la voce liberalizzazioni egli pretende di far passare persino una norma, quella dell’articolo 13, che abolisce una parte della riforma Moratti. Qui siamo davvero ad un insulto alle regole parlamentari e al diritto. Meraviglia, per non dire peggio, che il ministro dell’Istruzione non dica una parola su questa assurdità, se non altro per rivendicare la propria competenza. Fa forse comodo che siano altri a compiere un atto di governo discutibile, se non addirittura scorretto?
Insomma, siamo ad un finto liberalismo: sono micromisure che non hanno proprio niente a che fare con una politica liberale e liberista, come si vuol far credere. Mi permetta il ministro di dirgli che non è proprio elegante che egli lasci agli oppositori l’accusa di difensori di interessi corporativi. Egli fa uso di argomentazioni appartenute ad una cultura politica dalla quale dovrebbe essersi liberato da tempo. Non è questo il modo di condurre battaglie liberali. La cultura liberale vuole il metodo del dubbio innanzitutto e poi il dialogo e il rispetto per l’avversario, al quale le idee vanno contestate con altre idee e non con offese.
Di liberale, tra l’altro, c’è stato fin qui poco o niente nel modo come il ministro ha steso la sua «lenzuolata». Perché mai non ne ha discusso prima ad un tavolo con l’opposizione? Un decreto non è il mezzo giusto per una verifica corretta di un provvedimento tanto opinabile. Si direbbe che egli abbia voluto sorprendere e presentarsi, lui e il suo governo, come il campione di una politica liberale mancata al precedente Governo. Una sfida, insomma, che però s’è rivelata infelice per la gracile consistenza delle misure adottate.
Si è voluto esibire una sorta di cartello del liberismo. Ma come si fa a far passare per liberalizzazioni provvedimenti che si accaniscono contro categorie deboli come tassisti, barbieri, benzinai? O che creano illusioni in materia di mutui per acquisti immobiliari, ricariche di schede telefoniche, requisiti professionali che dovrebbero garantire la qualità di autoscuole e di guide turistiche? Lasciando invece marcire in commissione Senato, per l’ostruzionismo di una parte della maggioranza, un disegno di legge come quello del ministro Lanzillotta per la liberalizzazione, questa sì vera, dei servizi pubblici locali. Perché questo avvenga è abbastanza chiaro: sono i poteri e gli interessi locali della sinistra che vi si oppongono.
Signor ministro, detto con cordialità: il lenzuolo lo usi per coprire, e non per stendere, provvedimenti di così poco conto.

Glielo dico con dispiacere, perché da liberale mi sarebbe piaciuto approvare misure autenticamente liberali.

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