Cultura e Spettacoli

L'estasi della lussuria che travolge il sacro

Il pittore milanese anticipa i temi del Decadentismo Le sue scene religiose sono cariche di erotismo e follia

L'estasi della lussuria che travolge il sacro

Le furie segrete, le torture, gli sfinimenti, l'oscuro e profondo legame fra il piacere e il peccato non sono temi nati con il Decadentismo e appartenenti quindi al gusto della fine del secolo scorso, ma hanno radici ben più lontane nella stessa cultura cattolica, sia nella letteratura che nelle arti figurative. Tra i casi più clamorosi va certamente ricordato quello del pittore milanese (ma a lungo ritenuto originario di Varese) Francesco Cairo.

Con lui, gli strumenti della critica d'arte devono lasciare il posto a quelli della psicoanalisi. Davanti a noi si schierano non santi e sante in estasi, ma donne e uomini sfiniti da un desiderio struggente, affannati e sul punto di perdere i sensi. San Francesco brucia in un'estasi che lo divora, lo frantuma, lo spezza; Cristo nell'orto langue e impallidisce, come se avesse perduto tutte le forze. E tutto avviene nell'ombra, con luci striscianti, bagliori notturni, gemiti.

Ma il tema prediletto di Francesco Cairo sembra essere quello biblico di Erodiade con la testa del Battista; un soggetto ripetuto numerose volte, con sempre originali varianti, che trasformano la monotonia creativa in una suggestione di atmosfere peccaminose e dichiaratamente sadiche. Erodiade, come è noto, si innamora di Giovanni Battista, che, alle offerte amorose della donna, risponde con un rifiuto. E questa l'origine del suo martirio, tante volte rappresentato nella pittura e nella letteratura. Erodiade è la madre di Salomè: a un banchetto di Erode la giovanissima Salomè danza a un punto tale di eccitazione che Erode si dichiara pronto a esaudire qualunque sua richiesta. Salomè allora, incitata dalla madre, per vendicarla del rifiuto, chiede la testa del Battista.

Mai tema religioso ebbe uno svolgimento così legato alla condizione profana del piacere, della lussuria e del peccato. E infatti il tema ha ispirato le sensibilità più morbose del Decadentismo europeo, da Oscar Wilde a Gustave Moreau, da Richard Strauss (con la indimenticabile traduzione in musica della danza dei sette veli di Salomè) a Gustav Klimt, da Stéphane Mallarmé ad Aubrey Beardsley (le cui tavole illustrano proprio la Salomè di Wilde).

Ma nessuno di questi artisti tocca le profondità insondabili del peccato, il buio della coscienza, la notte oscura della ragione, come Francesco Cairo che lega, in un rapporto che non può che dirsi sessuale, il corpo della donna con la testa recisa del Battista, unendoli con uno spillo che trafigge la lingua del santo, talvolta estratta con le dita umide di saliva e di sangue. Erodiade non ha riscatto, i suoi sensi sono tramortiti, la testa reclinata, sfuggente nell'ombra dei fondi: ella sviene perché dalla lingua forata escono miasmi mortali, e il suo abbandono segna anche la distanza incolmabile che la separa dal Battista, cui estrae la lingua per oltraggiarlo anche dopo il martirio. Ma in tal modo rivela la sua attrazione piuttosto che il suo odio e in quel gesto consuma l'atto sessuale mancato. Il critico più sensibile all'arte di Francesco Cairo, Giovanni Testori, che ha scritto uno dei primi saggi nella direzione dell'interpretazione moderna del pittore, osserva che il contatto morboso della donna, con la testa recisa «non trova confronti se non negli autori più violenti ed estremi del teatro elisabettiano». Ed Erodiade ha diversi volti: da quello di cera, nel gran viluppo di velluti e pellicce del quadro della Pinacoteca di Vicenza, a quello di alabastro della versione conservata nella Galleria Sabauda di Torino, fino a quello ambiguo, quasi di androgino, della tela del Museo di Boston: ciò che li accomuna è il deliquio, la perdita dei sensi, la luce livida che preannunzia i colori terrei della morte. Ben diversi, sebbene pallidi e lunari, sono i volti delle Giuditte, come quella straordinaria di Sarasota, incontrastata dominatrice, che impugna l'ornata elsa della spada come uno scettro, e ci fissa, decisa a perforarci con lo sguardo, sotto l'incredibile turbante giallo e blu.

Ma queste opere, dove la donna, nei bene e nel male, domina come un'eroina, rappresentano soltanto un aspetto, se pure il più notevole e il più conosciuto, dell'arte di Francesco Cairo. Se ne accorse per primo Pellegrino Orlandi, autore del celebre Abecedario pittorico , edito nel 1704, nel quale si definiscono tre maniere, anche discordanti, del pittore: «La prima è quella dei maestri, con forte colore; la seconda più dolce acquistata in Roma; la terza di gran fondo, e sapere, riportata dalle opere di Paolo Veronese, e di Tiziano in Venezia: con quest'ultima fece sì bei ritratti, che passano per mano di Tiziano». Un pittore complesso, dunque. Come fu la sua vita?

Dopo un'iniziale attività, avvolta nei mistero, a Milano, nel 1633 gli vengono offerti duecento ducatoni da Vittorio Amedeo I duca di Savoia perché accetti di trasferirsi a Torino, città nella quale i suoi quadri erano già noti. Eppure, qualcosa turba la sua vita: infatti le fonti antiche ricordano che egli commise un «crimine» e fu costretto a rifugiarsi nel convento dei Cappuccini di Casbeno. Questo è il periodo delle Giuditte e delle Erodiadi. Dopo aver condotto una vita da libertino, decide di sposarsi con una donna del suo rango, essendo egli cavaliere, Ludovica Piossasca di Scalenghe, che gli darà nove figli.

Ma il lavoro lo trova a Milano, perché dai Savoia non giungono più commissioni. Soltanto tra il 1644 e il 1648 riprendono i contatti con Torino e il Cairo dipinge opere come Il ritrovamento di Mosè , ora alla Galleria Sabauda, il Salvatore e i santi Cristina e Valentino per la chiesa di San Salvario a Torino o La Vergine appare a Petrina Tesio per il Santuario di Savigliano. Nel 1648 ritorna a Milano per occuparsi del patrimonio della moglie. I documenti successivi, dal 1653, piuttosto che ricordare opere d'arte, lo descrivono impegnato in operazioni di compravendita, per consolidare un patrimonio di possedimenti, a Milano, a Cernusco, a Galliate, a Varese. Il 27 luglio 1665 il Cairo muore. Al momento della sua morte si trovano nella sua casa duecentonovantaquattro dipinti di diversi maestri, da Rubens a Tiziano, a Palma il Giovane, a Correggio, insieme a numerosi dipinti suoi e a 129 suoi bozzetti. Ma le opere lasciate nello studio non dovevano certo rappresentare il Cairo cui noi oggi attribuiamo inquietudini e sensibilità decadenti. Infatti il viaggio romano lo aveva profondamente trasformato. I brividi notturni, le luci lunari, le forme tornite, le macabre teste mozzate lasciano il posto a composti soggetti di tavolozza chiara e vibrata, a quella seconda maniera di cui parlava l'Orlandi e che è tutta sotto l'influenza di Pietro da Cortona.

Ed è forse questo il vero crimine commesso da Francesco Cairo, dopo averci lasciato alcuni capolavori travolgenti e modernissimi. Alla follia egli potrà sostituire talvolta l'abilità o una inconsueta monumentalità, come nei quattro santi, Agostino , Francesco , Bernardo e Domenico , chiusi e debordanti dalle loro nicchie nella chiesa di San Vittore al Corpo a Milano, che mandano riverberi più che del realismo di Caravaggio di quello del Ribera.

Ma è un momento, perché subito, nell' Estasi di santa Teresa d'Avila nella chiesa di Santa Maria degli Scalzi a Venezia, la bella invenzione è tradita da un'esecuzione assai fiacca, specialmente se posta al fianco del dipinto di analogo soggetto, la Visione di santa Teresa della Certosa di Pavia, che sta all'inizio della ricerca di Cairo, mostrando nel potente chiaroscuro, prima che le influenze di Tanzio da Varallo o del Morazzone, quelle dello stesso Caravaggio.

Il Cairo si è perduto, per avere troppo osato. La cristallina ma peccaminosa purezza delle sue eroine è trasformata in una torpida e vuota forma, inutilmente arrovellata, nella Morte di Cleopatra dell'Ambrosiana di Milano o nella Pandora della civica pinacoteca Malaspina di Pavia, un'opera influenzata piuttosto dal minore Nuvolone che dai grandi modelli di Rubens o da Van Dyck. Giovanni Testori ha giustamente osservato: «M'è sempre parso un segno da non trascurarsi che una dell'ultime opere di del Cairo riprenda lo stesso tema di una delle sue prime.

La santa che avevamo visto ingoiare, nel suo viscere, il giovane maestro, avrebbe, dunque, provveduto ad espellerlo, per lasciarlo lì, nella desolazione annullante, sfiatata e, si direbbe, afona dell'ultimo lustro di lavoro (e di vita)».

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