Controcultura

La letteratura (non) è un pranzo di gala

L'uomo è ciò che mangia, e soprattutto ciò che scrive I grandi autori? Tutti gourmet. I libri più belli? Zeppi di cibo

La letteratura (non) è un pranzo di gala

Qualcuno ha scritto che la vita è un grande, lungo, pranzo interrotto da qualche affanno di lavoro, e a volte di amore. L'uomo, comunque, se vogliamo ingozzarci di luoghi comuni filosofici, è ciò che mangia. E soprattutto ciò che scrive. Il cibo e la cucina rappresentano invitanti metafore della vita: perfette per essere scelte, cucinate e servite in quelle grandi narrazioni dell'esistenza che chiamiamo classici. Dall'Odissea - l'orto dei Feaci, i banchetti, il cibo come misura del grado di benessere e civiltà delle popolazioni che Ulisse incontra nel viaggio - all'Ulysses di James Joyce (artista goloso), compimento e sintesi del Romanzo, capolavoro di lingua e di gola: «Mr Leopold Bloom mangiava con gusto le interiora di animali e di volatili. Gli piaceva la stessa minestra di rigaglie, gozzi piccanti, un cuore ripieno arrosto, fette di fegato impanate e fritte, uova di merluzzo fritte. Più di tutto gli piacevano i rognoni di castrato alla griglia che gli lasciavano nel palato un fine gusto d'urina leggermente aromatica».

La letteratura è come la cucina: un tavolo da lavoro per provare accostamenti, mix, sperimentazioni, mescolamenti, nuovi ingredienti. E un bel libro è come un buon pranzo: ci vuole genio, tradizione, inventiva, fantasia e allenamento. La letteratura è rivoluzione: (non) è un pranzo di gala.

Cucina e letteratura. La prima usa i cibi, la seconda le parole. La stessa arte letteraria è, metaforicamente, un cucinare. E cos'è la ricetta, se non un racconto? Basta spiluccare i libri di Aldo Buzzi. E cos'è il piatto, se non un personaggio? Basta assaggiare la pagina sul risotto milanese di Carlo Emilio Gadda (e non diremo del suo mostruoso croconsuelo-gorgonzola...).

I menu letterari sono infiniti, come i gusti dei lettori.

Antipasti? Le sarde allo zolfo di Leonardo Sciascia, o lo sfavillante buffet «alla Gatsby» di Francis Scott Fitzgerald.

Primi? Maccheroni&C., ovvero la squisita arringa di Giuseppe Prezzolini in favore della pasta, vero simbolo dell'Italia («Gli spaghetti sono penetrati in moltissime case americane dove il nome di Dante non viene mai pronunziato. Inoltre l'opera di Dante è il prodotto d'un singolare uomo di genio, mentre gli spaghetti son l'espressione del genio collettivo del popolo italiano»), oppure il luculliano e opulento timballo del Gattopardo, piatto-principe della cucina siciliana (cinematograficamente, invece, il timballo più sontuoso del mondo viene servito in Big Night di Stanley Tucci).

Secondi? Che ne dite del Pollo al diavolo (mi raccomando: non «alla diavola») di Aldo Palazzeschi? O anche una leggera frittata, di quelle tanto amate da Gabriele D'Annunzio (chiedete alla sua infaticabile suor Intingola...). Invece Ernest Hemingway, glielo concediamo (è un americano), ordinerebbe merluzzo e fagioli...

Dessert? I mie personalissimi gusti mi portano a scegliere la torta di mele, On the road, di Jack Kerouac (se New York è la Grande Mela, l'America è tutta una grande apple pie). E, soprattutto, il gelato di Goffredo Parise, servito alla «B» di «Bambino», nei Sillabari. Una delle prose indimenticabili del nostro Novecento.

Bon appetit, direbbe Alexandre Dumas, del quale Leconte de Lisle e Anatole France, nella nota introduttiva alla prima edizione, postuma, del suo monumentale Dizionario di cucina (1873) dicevano: «Era un gran mangiatore, così come era un grande narratore».

Tutto ciò che ha a che vedere con il cibo, ha a che vedere con la vita. E con la letteratura. E con la cultura. E con la civiltà. Quanti profumi promanano dalla Penisola. Per l'Italia il cibo, e il rituale della tavola, è il primo codice di identificazione nazionale. Dal gastronomo romano Marco Gavio Apicio al pranzo di nozze fra il duca di Milano Gian Galeazzo Maria Sforza e Isabella d'Aragona, anno di sardanapalesca grazia 1489, fino alla guerra, a distanza, «contro» e «pro» pasta, tra i futuristi, quando Filippo Tommaso Marinetti tuonò «Abbasso la pastasciutta!», e il buon Prezzolini, che legge negli spaghetti il segno distintivo del Bel, e del Buon, Paese.

«La vita diventa un unico pranzo, pieno di sapori, di cibi, di bevande». Ecco chi l'ha detto. Un poeta. Valerio Magrelli.

Andrebbe messo in mostra il rapporto tra cibo e letteratura, come un monumento nazionale. E infatti. In occasione di TuttoFood (alla Fiera di Rho, dall'8 all'11 maggio), la capitale lombarda diventa il centro-tavola (inter)nazionale del cibo, organizzando la prima edizione di «Milano Food City» con incontri, show cooking, degustazioni e appuntamenti à la carte diffusi in tutta la città. E, per indagare il rapporto tra cultura e cucina, appunto una grande mostra - Cibi manoscritti. Manoscritti gastronomici dal '500 al '900, alla Casa Museo Boschi Di Stefano, fino al 9 maggio, a cura di Andrea Tomasetig - che racconta la grande storia della gastronomia italiana.

Che è prima di tutto una storia trasmessa dai libri e dalla carta e che non può essere demandata solo ai piatti preparati dai (pur migliori) chef. Ed ecco quindi antichi manoscritti, opuscoli, lettere, testi rari, prime edizioni... Tra i pezzi d'epoca esposti: Grida sopra la carne (Ferrara, 1566), un ricco ricettario di pasticceria del Seicento; due ricette milanesi tra Sei e Settecento Per fare il Cervellato di Milano; rare carte settecentesche sul Modo di fare la Mostarda; un poema manoscritto del 1778 dedicato alla festa tradizionale veronese del Bacanal del gnoco; il Libro dei menu redatto a Parma, nel 1820, alla corte di Maria Luigia d'Asburgo; un voluminoso ricettario con disegni di inizio Ottocento. E poi una recensione di Aldo Palazzeschi sul riso, una lunga poesia futurista sul vino di Fortunato Depero, un'altra sempre sul vino di Lorenzo Viani, una curiosa lettera inedita di Pitigrilli, ovvero Dino Segre (senza data, ma risalente agli anni Trenta, su una splendida carta intestata: la pubblichiamo in questa pagina), tre ricette milanesi redatte dal gourmet-letterato Aldo Buzzi, tra cotolette e cassöla... Il simbolo della vita, raffigurato dagli artisti e narrato dagli scrittori, del resto, è l'uovo. Alla coque, alla cok, alla Kok... Come vi piace.

«Non si vive per mangiare, si mangia per vivere» non solo è un insipido luogo comune, ma è anche una visione scotta dell'esistenza. Il cibo è vita. E aiuta a vivere meglio. Vale la pena rileggere il delizioso pezzo su Il Gusto di quella buona forchetta e ottima penna che fu Giorgio Manganelli, pubblicato - figurati - su Playboy nel 1980 e ora ristampato fresco fresco, con altri articoli a tema sotto il titolo Il palato immaginario, dalle edizioni Henry Beyle: «Per psicofagia intendo lo specifico effetto psichico che viene esercitato da un certo cibo, o da una sequenza di cibi; ed è utile per chi tende alla depressione, l'angoscia, l'ansia, la mania, il delirio, la paranoia, la tendenza al suicidio o all'omicidio, specie se frettoloso e indiscriminato. Non conosco, e dico il vero, ansiolitico paragonabile al peperoncino; che, guizzante e mordente, fa del vostro sudario una impeccabile marsina, con fiore all'occhiello. Delicate anime insicure diventano baldanzose dopo una semplice pastasciutta, generosamente condita, anche un poco volgare. Il lesso misto con mostarda di Cremona dà una matura pacatezza, e l'impressione di essere padre di numerosi figli, tutti bene affermati nella vita. La cotoletta alla milanese agisce bene solo se in sequenza: entro una settimana, comunica una pacata distensione, e la convinzione che la fine del mondo non ci riguarda. Una frittata può commuovere fino alle lacrime, ma insieme dare un calore infantile, una tenera rassicurazione che ci consenta di doppiare il tempestoso capo di una notte di aspra solitudine».

La letteratura in cucina, e la cucina in letteratura. La bibliografia è grassa. Anni fa, una docente di Letteratura italiana a Bologna, Maria Grazia Accorsi, invitò a mangiare tutti i Personaggi letterari a tavola e in cucina (Sellerio, 2005), tra romantici che non mangiano, realisti che lo fanno con misura, decadenti solo cibi raffinati: le tartine del giovane Werther; la farinata di Cime tempestose; i muffin della zia Chloe nella Capanna dello zio Tom; i pasticci di Capitan Fracassa...

A noi, poi, rischiando l'abbuffata, vengono in mente le Ricette immorali di Manuel Vásquez Montalbán, tutti i detective gourmet e tastevin della narrativa gialla (Hercule Poirot è molto esigente in fatto di rossi, Nero Wolfe di bianchi...), i digiuni di Franz Kafka - per respingere simbolicamente la figura del padre, gran mangiatore - e anche Fame di Knut Hamsun, e Gargantua e Pantagruele, il plum pudding che conclude la grande cena di Thomas Mann nei Buddenbrook, le arancine di Federico De Roberto (meglio del timballo?), il tartufo che Piero Chiara chiamava «il diamante della cucina», le quaglie en sarcophage apparecchiate in pagina da Karen Blixen, il Boeuf au vin di Marcel Prévost (invece delle scontate Petites Madeleines di Marcel Proust), l'insalata di banane affettate - «si condiscano con olio, aceto, pepe e sale» - di Ezra Pound (ricetta di cui fu testimone e più volte assaggiatore Vanni Scheiwiller), le uova di Piero Manzoni (arte&cibo, un'altra portata...) e poi tutte le tappe del Viaggio nella valle del Po alla ricerca dei cibi genuini del maestro di scrittura e cottura Mario Soldati, masterchef del reportage enograstronomico nella Rai degli esordi, anni Cinquanta.

Quando il food, grazie a Dio, si chiamava ancora, semplicemente, cibo. Burp!

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