Cultura e Spettacoli

Le lettere 1946-1954

Non tutti gli scrittori si sono curati di conservare, a futura memoria o in una illusione di (relativa) immortalità, la corrispondenza epistolare a cui talvolta si affidano segreti che sulla pagina di un poema o di un romanzo si depositano più difficilmente. Così non ci rimangono, ad esempio, salvo fortuite eccezioni, le lettere che il narratore X o il poeta Y spedirono a Montale, a Ungaretti... Va meglio con Saba, benché non sia stato ricomposto finora in unità il gruppo dei numerosi carteggi di cui fu promotore e destinatario. Oggi è una ragguardevole acquisizione l’insieme delle lettere che si scambiarono, fra il ’46 e il ’54, Saba e Sereni. Le raccoglie e le annota ottimamente Cecilia Gibellini per le edizioni Archinto (Umberto Saba, Vittorio Sereni, Il cerchio imperfetto, pagg. 250, euro 16). Trentanove le lettere di Saba, diciannove quelle di Sereni: forse il giovane è stato più scrupoloso dell’anziano nel custodire i documenti. Vi traspare una potenziale «paternità» di Saba nei confronti di Sereni: trent’anni esatti il divario all’anagrafe; e a volte il poeta triestino ha l’aria di rivolgersi all’amico lombardo (nato nel 1913, quando Saba licenziava il suo libro «di più ardita sincerità», Trieste e una donna) come a quel figlio maschio che la vita non gli aveva concesso e che, nel punto in cui il carteggio comincia, sembra ancora parzialmente surrogato dalla figura di un giovane di pronto ingegno, Federico Almansi, il Telemaco dedicatario, nel Canzoniere, di tre Mediterranee (il suo nome emerge in queste lettere: Saba prega Sereni di informarsi delle condizioni di Federico, che abita a Milano).
Mentre Saba esordisce sùbito col tu, Sereni non varcherà mai la soglia di un lei rispettoso. Ma non è un ostacolo, la confidenza fluisce comunque; né, ad esempio, Vittorio nel ’47 si periterà di obiettare a Saba «il torto di prendersela proprio con quelli che gli vogliono bene davvero». Reduce dal «grosso infortunio» della prigionia algerina, Sereni pubblica nel 1947 il Diario d’Algeria. Saba lo recensisce sul Corriere: a modo suo, cioè parlando anche di sé. La lettura divagante ed episodica è tipica di Saba, incline a scovare e isolare in un’opera i singoli versi, sentenziando se abbiano o no còlto una verità. Nel 1952 distingue tra «due specie di “belle poesie”, quelle che sono semplicemente belle e quelle che, magari essendo meno belle, incidono più a fondo nella vita».
Non si frequentarono molto, i due poeti, eccetto che nel 1947-48 a Milano, quando Saba vi si permise prolungati soggiorni. S’impiantò allora un’amicizia che in Sereni, l’accennavo, trabocca anche di amor filiale. Professore nei licei, poi dal 1952 assunto alla Pirelli con impegni non tutti gradevoli, la poesia lo visitava più di rado: una lacuna, un malessere, colmati solo nel 1965 dal nuovo libro, Gli strumenti umani. Frattanto Saba esorta Sereni a non trascurare la prosa, nella quale gli dà sincero credito: ma sull’episodio di cui sono stati entrambi personaggi e spettatori in un caffè milanese, a Vittorio che ne ha ricavato un racconto Saba rimprovera di avere un po’ alterato la realtà dei fatti.
Consolatore di chi soffre, ma senza ricevere, lui, da nessuno i conforti dei quali ha bisogno, nella sua nera povertà di nevrotico e - segnatamente nella sua Trieste - di isolato, frainteso, insultato, Saba è volentieri estroso, paradossale, nelle parole e nei comportamenti: penso al «programma» che stila nel caso diventasse governatore di Trieste o al sostegno dato al Fronte Popolare in vista delle elezioni politiche del 1948, sebbene ritenga il comunismo una malattia. Sono famosi i versi nei quali Sereni rievoca un Saba, per le vie di Milano, sbraitante contro l’Italia che ha decretato il trionfo «clericale». Ad aprire e a chiudere in una strana simmetria l’odierno carteggio, gli echi di due «successi» del poeta Saba: il premio Viareggio (ex aequo) nel 1946, la laurea honoris causa all’università di Roma nel 1953. Valgono poco, l’uno e l’altro alloro, a mitigare il senso di iniqua emarginazione che non si cancella mai dalle giornate di Saba.

In Sereni egli trovava non solo una disponibilità di orecchio e di cuore ma una devozione discreta, radicata nel riconoscimento che il Canzoniere di Saba non somiglia a nessuno dei libri di poesia apparsi in Italia nell’arco di un secolo.

Commenti