A lezione da Wall per una fotografia più reale del vero

A lezione da Wall per una fotografia più reale del vero

Quando gli scatti di Jeff Wall sono comparsi sulla scena artistica alla fine degli anni '70, hanno innescato una rivoluzione. Da teenager Wall, canadese, voleva diventare un pittore, ma poi avvertì le potenzialità artistiche nel linguaggio fotografico, e ne rimase via via sempre più attratto. Siamo nei primi anni '60 e la fotografia è un mondo di nicchia. Wall viaggia in Europa e l'impatto con l'arte «classica» è fortissimo: Velasquez, Rembrandt, Manet. Capisce insomma di voler tradurre in fotografia dei canoni che fino ad allora erano appartenuti unicamente alla pittura e di voler aprire un dialogo tra le due arti.
In quegli anni i maestri della fotografia si esprimevano soprattutto con il Reportage in bianco e nero. «La scuola documentaristica di Walker Evans o Robert Frank per me si era esaurita, non si poteva fare di meglio, era già perfetta, compiuta. Sapevo che avrei seguito un altro percorso e sapevo che la chiave era nella relazione tra la fotografia e le altre arti». È così che nascono le enormi immagini di Wall, fotografie a colori scattate con macchine di grande formato (banco ottico) che consentono una risoluzione ed una qualità di stampa «infinitesimale». E la possibilità di rendere il più piccolo dettaglio della realtà anche in una stampa di grande formato, consente a Wall di riprodurre i suoi soggetti in scala reale 1:1.
Improvvisamente formati di stampa mai visti prima (fino a 3mx4m o 2mx5m) danno alla fotografia un'autorevolezza nuova, rivoluzionaria. «In Mimic volevo che le figure avessero un'importanza fondamentale, le ho portate in primo piano, proprio come nei grandi quadri di Velasquez o di Caravaggio. Mi interessava la contemporaneità della pittura di questi autori, la capacità di rendere assolutamente attuali le figure e la verità delle espressioni». Ma la rivoluzione che Wall mette in atto passa anche per un'altra arte: il cinema. «Da ragazzo aspettavo il sabato pomeriggio per rinchiudermi al cinema: ho visto film di Fellini e di Pasolini non come classici, ma come pellicole appena uscite. Erano diversi dagli Hollywood movies, sembravano delle opere d'arte. Allora ho capito che potevo guardare un film come un Cezanne». Partendo da queste suggestioni Wall decide di mettere le sue grandi immagini a dialogo con il cinema. Per realizzare le sue opere allestisce dei veri e propri set: meticolose ricostruzioni che vedono l'impiego di attori, luci e scenografie. Pur sembrando delle foto estemporanee, scattate in strada osservando la vita quotidiana, sono invece il frutto del più sofisticato artificio. Una street photography ben diversa da quella fino ad allora praticata.
Tutti gli scatti presenti alla Lorcan O'Neill di Roma, la galleria dove abbiamo incontrato l'artista (l'unica ad avere l'escluisiva in Italia per Jeff Wall) sono nati da incontri fortuiti. Il giovane ragazzo sotto la pioggia è un amico di suo figlio presentatosi una sera a cena, la lezione di storia del costume di Ivan Sayers è veramente stata frequentata da Wall e da sua moglie. «Le mie fotografie nascono sempre per caso, da una scena che realmente avviene davanti ai miei occhi, che catturo nella mia mente. Con il tempo ho iniziato a guardare tutto quello che mi accadeva intorno come un potenziale soggetto e a prestare molta attenzione. Anche nel caso di Mimix. Camminando mi sono imbattuto nella scena del ragazzo che si allunga l'occhio per denigrare l'asiatico ed ho immediatamente capito che quella era un'immagine che volevo scattare». Wall unisce l'immediatezza della street photography alla finzione del cinema giocando con la nostra percezione. «Sappiamo veramente che cos'è realistico e naturale in fotografia? Io credo di no. Ho una grande collezione di immagini spontanee prese da giornali che sembrano del tutto artificiali, orchestrate. Noi ci illudiamo di sapere come ci muoviamo e come le cose possano apparire in fotografia. La gente usa gli occhi come dispositivi GPS, ma in realta' non vede nulla. La vista è un miracolo e quello che vedi ti può sempre sorprendere».
La ricerca tecnologica per Wall è sempre stata di grande importanza. «Il computer ha cambiato moltissimo il mio modo di lavorare. Ho voluto imparare già all'inizio degli anni '90. È stato il primo vero grande cambiamento da quando è nata la fotografia. Ma nello stesso tempo credo che la gente abbia abbandonato la pellicola troppo velocemente. La qualità è ancora superiore e straordinaria e io personalmente ne ho enormi scorte. Conservo in diversi frigoriferi circa 70.000 rullini Polaroid. Ne ho per i prossimi 20 anni...». Ma il punto nodale nella rivoluzione attuata da Wall è la forma espositiva dell'opera: i lightboxes, scatole che contengono immagini retro-illuminate prese in prestito dallo scenario urbano delle grandi insegne pubblicitarie luminose. Mai una fotografia era stata più seducente: grazie alla luce i colori si saturano, brillano e l'immagine aquisisce forza. Gli domando se si tratti di una forma espressiva ancora attuale nel suo lavoro. «Ho smesso di utilizzare i lightboxes ormai da circa 5 anni, non mi è mai piaciuto limitare la mia ricerca. Ora lavoro su stampe a colori senza retro-illuminazione e sul bianco e nero. Sono arrivato tardi al bianco e nero perché per utilizzare la tecnica tradizionale, ma in grande formato, l'unico modo era costruirmi da solo una enorme camera oscura. Ci ho messo 15 anni.

Comunque è probabile che io ritorni ai lightboxes prima o poi, ma sicuramente con uno sguardo completamente nuovo».

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