Cultura e Spettacoli

Lezioni di giornalismo dall’Africa nera

Un reportage del 1975 dell'inviato polacco: intrappolato nell'assedio di Luanda racconta l'Angola che strappa l'indipendenza ai portoghesi. Mentre tutti scappano come topi dalla nave che affonda

Lezioni di giornalismo dall’Africa nera

Quando lo chiamavano «l’ultimo grande inviato» - e ormai era un coro ecumenico - Ryszard Kapuscinski non contestava, ma neanche lasciava trasparire entusiasmo. Troppo autoironico e nemico di ogni retorica. Sapeva bene che il segreto della sua straordinaria esperienza era un umanesimo vecchio di almeno duemilacinquecento anni: quella «grecità mentale» nota ad Alberto Savinio, che ha radici nei nostri Maggiori. Lo sapeva almeno dal tempo in cui la bionda Irena Tarlowska, capo redattrice al polacco Sztandar Mlodych, nel lontano ’56, prima di mandarlo in India per il suo primo reportage, gli aveva regalato un libro da viaggio: Erodoto, Storie. Da quel momento, il vecchio greco gli era stato amico e sodale: la prima ispirazione per l’inviato moderno. Erodoto - ha scritto Kapuscinski - non è solo uno storico, ma un reporter, un antropologo, un etnografo. Nell’Europa medievale lo chiameranno un viandante, un uomo che è sempre in cammino. Egli girava, mosso dalla curiosità di conoscere il mondo, i suoi abitanti, e descriverli. Ecco, secondo Kapuscinski, nulla era cambiato. Probabilmente, se Erodoto avesse potuto disporre di treni, aerei, automobili, o di una bicicletta, avrebbe ottenuto lo stesso numero di informazioni...

Kapuscinski ha una carta in più rispetto a chiunque altro, perché non teme la miseria, avendola conosciuta bene e sapendo come affrontarla. Nato a Pinsk (oggi Bielorussia), nel 1932, ha sette anni quando scoppia la seconda guerra mondiale. Ha dieci anni, è inverno, e non possiede un paio di scarpe: le compra di legno, vendendo quattrocento pezzi di sapone fabbricato di contrabbando. Ha dodici anni e fa il pastore di vacche, ancora non ha letto un libro. Nel 1964 è inviato in Africa dalla Pap (Polska Agencja Prasowa), col compito di descrivere il colpo di Stato in Nigeria. Ha solo cento dollari: bastano per una pagina di telex. Duecento parole che fanno il giro del mondo.

Ora che è trascorso circa un anno e mezzo dalla sua scomparsa (avvenuta il 23 gennaio 2007 in seguito a complicazioni successive all’intervento chirurgico cui era stato sottoposto qualche giorno prima), il suo editore italiano Feltrinelli lo ricorda pubblicando Ancora un giorno (traduzione di Vera Verdiani, pagg, 144, euro 11), un vecchio reportage dall’Angola datato 1975. Una scelta azzeccata, per la sorprendente attualità del volume e perché dalla sua lettura si può ricavare un ritratto abbastanza preciso dell’autore. Il libro racconta la liberazione del Paese africano dalla colonizzazione portoghese, e con essa una guerra ancora in corso e dimenticata. Ma, soprattutto, mostra Kapuscinski nudo, nella sua disarmante e straordinaria semplicità.

A un certo punto, per esempio, egli dichiara: «Non sono mai stato capace di parlare di gente con la quale non ho condiviso almeno una parte di quello che essa stessa sta vivendo». Nel che è racchiusa l’essenza del lavoro da reporter. A questa massima, il Nostro si è scrupolosamente attenuto per tutta la vita. Girando tutti i posti «caldi» del mondo. Basti pensare che, solo in Africa, ha assistito a 38 colpi di Stato. Ma è stato anche testimone dei movimenti anticoloniali, oltre che nel Continente nero, in Asia e in America Latina, e ha visto nascere il Terzo mondo. Ancora, nel 1990, è riuscito a farsi beffe degli agenti del Kgb entrando nel Nagorno Karabakh, allo scopo di incontrarsi coi dissidenti armeni. Per far ciò si è travestito da comandante ubriaco dell’Aeroflot. Ha evitato più di una condanna a morte...

Il suo Imperium resta, ancora, una bibbia insostituibile per chiunque, affrontando un viaggio negli sterminati territori dell’ex Unione Sovietica, voglia saperne di più, evitando di fermarsi alle prime impressioni.

Quest’ansia di condivisione delle altrui esperienze, nel 1962, lo condusse in Uganda, precisamente a Kampala. Qui, immobilizzato dalla malaria cerebrale (malattia cronica che lo ha afflitto tutta la vita: ma non si è fatto mancare la tubercolosi e vari malanni tropicali...), svegliandosi dal coma, si trovò accanto, nientemeno, Idi Amin Dada, il tremendo e gigantesco dittatore nero...

Il titolo del volume, Ancora un giorno, è la frase pronunciata da un patriota angolano quando, giunto al tramonto, si accorge infine d’averla fatta franca: «Ancora un giorno di vita». Kapuscinski è con lui e, per ingannare il tempo e allentare la tensione, si mette in strada a fare qualche esercizio di ginnastica...

Intrappolato nell’hotel Tivoli di Luanda, mentre la città è sotto assedio, racconta la condizione del reporter, che non sempre è privilegiata, anche dal punto di vista dell’informazione.

Paradossalmente, infatti, è il movimento delle navi alla fonda nel porto, ad avvisare dei possibili bombardamenti o dello scampato pericolo. Quando le radio di tutto il mondo annunciano l’imminenza della battaglia per la conquista di Luanda, le navi prendono il largo e si fermano sulla linea dell’orizzonte. Con loro si allontana anche l’ultima speranza di salvezza. Poi si viene a sapere che l’attacco a Luanda è stato rimandato e la flotta rientra nella baia, riprendendo la sua interminabile attesa dei carichi di caffè e cotone.

Kapuscinski viaggia sempre nel tempo e nello spazio e sa che un vero viaggio non comincia nel momento in cui si parte, né finisce quando raggiungiamo la meta. Ha inizio molto prima e non finisce mai, dato che il nastro dei ricordi ci scorre dentro per sempre, anche quando ci siamo fermati. Ha dentro di sé il virus del viaggio, lo stesso contratto da Erodoto. È per questo che i suoi reportage sconfinano spesso nella letteratura e la lezione del vecchio greco fa sì che il passato sopravviva nel presente creando un flusso ininterrotto di storia. A volte, la frustrazione del reporter (da cui in patria ci si aspettano grandi scoop, e che magari si trova isolato tra le pareti di un albergo) è vinta proprio rievocando il passato: la distruzione di Atene può essere più appassionante dell’ultimo colpo di Stato africano... E allora, con Erodoto, si varcano le frontiere del tempo, o ci si rifugia nella letteratura.

In Ancora un giorno la descrizione del progressivo spopolamento di Luanda assediata riecheggia La peste di Camus e ha accenti di grande ironia. Sono scappati tutti, come topi da una nave che affonda: i portoghesi coi loro beni e masserizie, travasando una «città di pietra» in una «città di legno», fatta di casse da imbarcare sui piroscafi in partenza alla volta dell’Europa; poi i negozianti, la polizia, i tassisti, i barbieri. Quando tocca ai netturbini, la spazzatura comincia a lievitare e in città si ammucchiano montagne di rifiuti. A un certo punto muoiono i gatti, avvelenati. Dopo due giorni si gonfiano, diventano grossi come maiali, coperti da nugoli di mosche nere. I cani, invece, sono ancora vivi. «Finché c’era l’esercito portoghese, la sterminata torma canina si riuniva ogni mattina sulla piazza davanti al comando generale, nutrita dalle sentinelle con le scatolette delle razioni militari Nato. Sembrava di assistere a un’esposizione internazionale di cani di razza. Poi, sazio e soddisfatto, il branco si trasferiva sull’erba morbida e succosa dello slargo davanti al Palazzo del governo. Lì cominciava un’incredibile orgia sessuale di massa, una frenetica e instancabile follia con inseguimenti e ammucchiate fino all’ultimo respiro. Le sentinelle ingannavano la noia con qualche risata scurrile». Partito l’esercito, i cani scompaiono. Poeticamente, il Nostro li consegna al Mito, ipotizzando che dal gruppo sia emerso un energico leader che abbia condotto la mandria canina fuori dalla città morente.

«Forse stanno ancora vagando, chissà verso dove, chissà in quale Paese».

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