Cultura e Spettacoli

Il liberalismo non può essere socialismo

Sorprendenti enunciazioni alla ricerca di un introvabile egualitarismo nella libertà

Parafrasando ancora una volta Leo Longanesi si potrebbe ragionevolmente convenire per esperienza che il vissuto del liberalismo in Italia è sempre stato piuttosto «una maniera di attendere, non di pensare»: vale a dire una saggia mentalità che implica misura, tolleranza e senso del limite nell’ambito delle più varie e contrastanti culture politiche (dalla destra alla sinistra, passando per il centro, senza dimenticare perfino le estreme).
Non proprio così sembrano pensarla invece Corrado Ocone e Nadia Urbinati coautori di una recente antologia del pensiero liberale italiano «da Filangieri a Bobbio» (La libertà e i suoi limiti, Laterza, pagg. 270, euro 18) che intende suggerire una guida sicura per non «dissipare» i valori puri del liberalismo preservandoli dalle più varie commistioni (e gli autori non nascondono di avercela con chi, come per esempio il presidente del Senato Marcello Pera, ha predicato «la convivenza teorica di valori assoluti con il pluralismo dei valori» riguardo ai rapporti tra religione e politica).
Collezionando scritti distanti e più che disparati tra loro - Pietro Verri, Vittorio Alfieri, Gaetano Mosca, Benedetto Croce, Piero Gobetti, Gaetano Salvemini, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Guido Calogero, Luigi Einaudi, Carlo Antoni, Arturo Carlo Jemolo, Luigi Sturzo, eccetera - l’antologia mostra però una sua coerenza solo grazie alla scelta pregiudiziale che la sostiene. Partendo dall’assunto che il liberalismo si identifica nella «cultura del limite», gli autori ne estendono l’essenziale fallibilità fino al punto di rivendicare quasi l’ossimoro di una «dottrina senza principi» dove il pluralismo appare alieno ed avverso a qualsiasi enunciato assoluto in campo morale oltre che politico ed economico. Con questa premessa il primo avversario dello spirito liberale diventa ogni forma di «teologismo»: col risultato di rovesciare i fondamenti della crociana «religione della libertà» in una sorta di pura e semplice «libertà dalla religione».
Non a caso Ocone ed Urbinati allontanano dalla loro visuale la tradizione cattolico-liberale (da Manzoni a Gioberti, eccetera) ritenuta conciliatoria dei conflitti e inficiata da «ecumenismo antilluminista». E privilegiano le tendenze di pensiero laiche (o meglio laiciste) da cui deriva una concezione «antiautoritaria» che riconosce il potere solo sulla base del consenso senza alcun fondamento di principio. Un simile liberalismo «senza religione» a sfondo pragmatico e relativista fa così quasi sfumare l’identità del pensiero liberale in quella della tradizione demo-radicale o socialista.
Tanto è vero che nel considerare la odierna rinascita della cultura liberale in Italia (dopo la ritirata del marxismo e il fallimento del comunismo), gli autori paventano rischi di «fondamentalismo» proprio nel culto borghese dell’individualismo e ancor più nella «fede acritica e religiosa nella naturalità delle forme economiche associate al mercato». Una simile posizione bersaglia in primis la formula aurea di von Mises («Il programma del liberalismo si riassume in una sola parola: proprietà») e vagheggia l’alternativa di un «liberalismo sociale» privo di basi senza le quali l’identità liberale si può però soltanto sciogliere come neve al sole: la competizione individuale nella «lotta per la vita» e l’idea dell’individuo (o della persona) come fonte naturale di vita morale nonché soggetto di diritti inalienabili.


E si comprende allora come mai gli autori giungano alla sorprendente conclusione secondo cui «solo il principio della eguaglianza può garantire una effettiva e concreta libertà»: curioso paradosso che, oltre a tagliar netto col deismo giusnaturalista di John Locke e col religioso e aristocratico storicismo di Benedetto Croce, può solo confortare la cura di certe anime belle, orfane di Karl Marx, sempre in cerca di un imprecisato e introvabile «socialismo nella libertà».

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