Controstorie

L'impero è finito da tempo ma non le liti per la nobiltà

Nel 1919 i titoli sono stati aboliti dalla legge. A Vienna però vivono, soprattutto nei tribunali

Angelo Allegri

R obert Musil la chiamava Cacania: era l'Austria degli Asburgo, un mondo di solenne lentezza, di antiche abitudini diventate tradizioni, di una burocrazia benevola e pignola, dove ogni cosa aveva un suo posto e ogni persona il suo rango. Tutto era imperial-regio, in tedesco Kaiser-Koeniglich, abbreviato «k.k.» o, secondo la pronuncia, «kaka», da cui il soprannome scelto dall'autore dell'Uomo senza qualità.

Dalla deposizione dell'ultimo sovrano, Carlo I, più tardi beatificato dalla Chiesa, sono passati 101 anni. Ma a Vienna è come se fosse ieri e ancora si litiga su conti, duchi e marchesi della corte imperiale. Nel mirino dei tribunali, a pronunciarsi sono stati perfino la Corte Costituzionale e la Corte di Giustizia Europea, è finito sempre più di frequente l'uso dei titoli nobiliari. Una legge del 1919 li abolì per sempre vietando il loro impiego pubblico. Termini come Freiherr (barone), Graf (conte), Herzog (duca) scomparvero da un giorno all'altro su giornali e biglietti da visita. Anche la particella «von», che letteralmente significa «di», tradizionale attributo nobiliare un tempo collegato con il nome del feudo, fu proibita. Ottone d'Asburgo Lorena, a lungo parlamentare europeo eletto in Germania, e per 85 anni, fino alla morte nel 2011, erede al trono, in Austria era Otto Habsburg, e non Otto von Habsburg.

L'atteggiamento di autorità pubbliche e ordine giudiziario è sempre sembrato ispirarsi a una ragionevole tolleranza, anche se le tensioni non sono mai mancate. Qualche anno fa, per esempio, il celebre direttore d'orchestra Herbert von Karajan, nato a Salisburgo, dovette minacciare di non esibirsi più nel Paese se gli fosse stato tolto il prestigioso «von». In quel caso un provvedimento ad hoc («Lex Karajan»), stabilì che se la particella era diventata parte integrante del nome di un artista poteva essere tollerata. Il principio è quello adottato in Germania (dove vale per tutti e non solo per gli artisti), ma la minacciosa legge austriaca resta di tutt'altro tenore. Anzi, non più tardi di cinque o sei anni fa un paio di parlamentari presentarono sul tema altrettanti disegni di legge. Non per cancellare quello che dalle nostre parti potrebbe sembrare un anacronistico divieto. Tutto il contrario: per adeguare le sanzioni ai tempi e all'inflazione. Il tentativo non ebbe successo e la punizione è restata quella fissata decenni e decenni or sono, tutt'altro che lieve se commisurata alla gravità della colpa: fino a 6 mesi di carcere e 290 euro di multa.

Per misteriosi motivi, forse una maggiore severità degli uffici amministrativi, forse semplicemente per il tentativo da parte di un paio di aspiranti nobili di scardinare pubblicamente le vecchie norme, la questione è tornata di recente alla ribalta. Tra gli altri ha fatto rumore il caso di un distinto veterinario svizzero di 61 anni, Niklaus von Steiger, sposato da un paio d'anni con un'austriaca. Von Steiger ha impugnato la decisione dell'ufficio dell'anagrafe che ha negato alla moglie (come lui ha la doppia cittadinanza) il passaporto con la particella «von». Poi ha aperto una pagina Facebook e coinvolto nella battaglia, chiedendo un'udienza pubblica, il presidente della Repubblica Alexander Van Bellen, che per il suo stesso nome è per definizione interessato alla questione. «Van», infatti, non è altro che la versione olandese del «von» tedesco (la famiglia è originaria proprio dei Paesi Bassi). Siti e giornali hanno avanzato l'ipotesi che anche la massima autorità dello Stato possa vedersi costretta a cambiare il cognome in applicazione della legge, anche se sono subito intervenuti gli esperti a spiegare che nel caso di Van Bellen la particella è semplice indicazione di provenienza e non attribuzione nobiliare. Comunque sia, la questione è ancora impantanata in un ginepraio di polemiche e di possibili ricorsi giudiziari. Il veterinario ha già annunciato che lui e la moglie rinunceranno alla cittadinanza austriaca se non riceveranno soddisfazione.

Va detto, per inquadrare la questione, che una querelle del genere non sarebbe potuta accadere che a Vienna e dintorni. Si dice che gli italiani siano tutti dottori, ma di sicuro non esiste altro popolo così innamorato di onorificenze e qualifiche come gli austriaci. Se da noi si compila un modulo via internet ci si trova di fronte al massimo un pugno di appellativi (da signore a dottoressa). In Austria sono sempre almeno una quindicina: per il semplice laureato c'è il sonoro Magister, per chi in università si è fermato un po' di più c'è il prestigioso Doktor, per chi poi ha un incarico di docenza (non solo alle università, ma anche nelle scuole) c'è la qualifica di Professor e secondo la tradizione basta prenotare un ristorante usando questo appellativo per vedersi assicurato il tavolo migliore. Dal mondo educativo a quello delle professioni c'è chi ha censito 869 titoli diversi e la specificità austriaca affonda le radici, ancora una volta, ai tempi dell'Impero. Per ultimo fu Francesco Giuseppe a ribadire con complesse tabelle la corrispondenza tra incarichi in un ufficio pubblico e gradi militari. Una volta stabilita la Repubblica si cercò di abolire la tradizione, senza però riuscirci. E la carriera di funzionario statale è rimasta un continuo passaggio da un altisonante appellativo all'altro: si va da direttore amministrativo a referendario, da consigliere a consigliere superiore. C'è perfino, ed è tra i gradi più alti, la qualifica di Hofrat, letteralmente Consigliere di Corte. La Corte non c'è più, l'incarico è rimasto. Guai a dimenticarsene quando se ne incontra uno.

C'è chi si presenta così anche sulla propria pagina di Facebook.

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