Cultura e Spettacoli

Lucio Lami, reporter dei conflitti di fine secolo

Raccolti in volume gli articoli scritti nelle zone calde di tutto il mondo dall'inviato de «Il Giornale»

L'inviato di guerra. Una professione che nei giornali va sempre meno di moda. Praticarla, nel migliore dei casi costa caro. Nei peggiori, può arrivare a costare la vita. Senza contare che, a molti, appare ormai come obsoleta la faticosa corsa alle notizie, spersi sul fronte di una guerra qualunque, mentre in redazione, grazie alla Rete, piovono agenzie, filmati e immagini di ogni tipo. E se si guarda al contesto globale, davvero chi è sul posto raccoglie meno informazioni di chi è dentro un network. Eppure il vero inviato, capace di cogliere il peso di un particolare, di un dettaglio quasi invisibile in mezzo alla polvere e agli spari, può raccontare al lettore ciò che non si troverà mai in un accrocchio di veline, di grafici con gli aeroplani e i carrarmatini.
Questa almeno è l'impressione che si ha leggendo Giorni di guerra. Cronache dai conflitti di fine secolo di Lucio Lami, ponderosa raccolta dei reportage che il giornalista scrisse per il Giornale dal 1980 al 1985 ora proposta in libreria da Mursia (pagg. 300, euro 19). Questi articoli scritti da alcuni dei fronti più caldi della nostra storia recente - la frontiera Iran-Iraq, la Cambogia, l'Irlanda dell'Ira, il Libano, l'Afghanistan... - contengono quasi sempre quel dettaglio che trasforma un fatto di sangue lontanissimo, in qualcosa che riesce a toccare chi se ne sta a casa con il giornale o il libro sulle ginocchia. Per dirla in sociologhese, creano empatia. Per dirla semplice, danno l'impressione a chi legge di essere davvero lì.
E in queste pagine di giornalismo vissuto pericolosamente gli esempi di questo stile, che come dice Lami si imparava anche vivendo di «ambizioni e di esaltanti letture», sono tantissimi. Per raccontare il coprifuoco a Baghdad durante la guerra con l'Iran, il silenzio immobile di un'intera città, Lami, gioca di penna quasi fosse Salgari: «Il cielo trapuntato di stelle, grandi e vibranti, è l'unica realtà rimasta intatta... e i Suba, ultimi esponenti di una setta che adora gli astri, vi leggono il futuro come ai tempi di Nabucodonosor». Quando si tratta, invece, di descrivere la guerra guerreggiata non cede al gusto del tragico, mette a fuoco i dettagli, come nella presa del porto di Khorramshahr da parte degli iracheni. Per descrivere la furia del cannoneggiamento racconta i moli ingombri di merci devastate: «Ho visto montagne di giocattoli cinesi, di posate, di frullatori, di macchine per cucire, sparsi ovunque al suolo dentro scatoloni sventrati». E quando si tratta di descrivere i terribili effetti della dittatura khmer in Cambogia si sofferma sui giovani induriti dalla guerra, ma con una narrazione che diventa di colpo asciutta, misurata: «I ragazzi che al tempo della rivoluzione si erano costruiti una solida fama di bambini cinicamente obbedienti e lugubremente sanguinari, adesso sono robusti e cotti dal sole... piccoli robot della morte, hanno solo cambiato uniforme». E questo tralasciando pagine densissime come quelle libanesi che descrivono l'attentato contro il comando americano e francese: danno i brividi, sembrano una truce premonizione dell'Undici settembre.
Insomma val la pena di leggere Lami e di chiederci se il reportage davvero è destinato a essere sempre più un genere da «dinosauri». Forse sì, ma sarà un peccato. Certe pagine di giornalismo magari non faranno accorrere orde alle edicole, però rendevano onore a una professione e anche alla letteratura. Almeno a dar retta a Saint-Exupéry: «L'essenziale non sta nelle robuste soddisfazioni del mestiere, né nelle sue miserie, né nei suoi pericoli, ma nel punto di osservazione al quale ci innalzano».

Lami si è seduto, non stando mai fermo, su un bel cucuzzolo.

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