Cultura e Spettacoli

Maccari, matita selvaggia che disegnò l'Italia

In mostra le opere dello "strapaesano". Fu il nostro unico, vero espressionista; con Longanesi e Flaiano rappresenta la migliore espressione della caricatura italiana

Maccari, matita selvaggia che disegnò l'Italia

Nell’ottobre 1922, a ventiquattro anni, Mino Maccari partecipa con gli squadristi di Siena, la sua città, alla Marcia su Roma. Lo racconta lui stesso, con la solita ironia: «Era un’avventura da boy scout, nessuno ci torse un capello, non ci furono incidenti. Neppure uno di noi a cui uscisse il sangue dal naso».

Durante la marcia il gruppo si ferma a una novantina di chilometri da Roma, non lontano da Orte, per aspettare Mussolini che deve arrivare in treno da Milano. La sosta si prolunga e Maccari, dopo aver ingannato il tempo ritraendo i suoi compagni in pose oscene, forse spazientito dall’attesa lancia un proclama destinato a rimanere famoso come presa in giro del fascistissimo «O Roma o morte»: «O Roma o Orte!».

C’è tutta la sua personalità beffarda in quel distico fulminante, capace di irridere anche alla retorica più solenne (in un’epoca in cui ci voleva un certo coraggio perfino a scherzare su Garibaldi). Ma dei suoi giochi di parole, che fanno di lui e di Leo Longanesi i padri di una linea italiana della satira che giunge fino a Flaiano, se ne conoscono molti. «Da De Amicis ci guardi Iddio!», titolava un articolo del 1943, lamentando il sentimentalismo socialisteggiante del libro Cuore, lettura praticamente obbligata di tutti i ragazzi. «Non quando li prende, ma quando li rende, Parigi ci offende», aveva scritto dieci anni prima, salutando sarcastico il ritorno di Giorgio De Chirico dalla Francia.

Maccari, però, è stato anche, anzi soprattutto, disegnatore e pittore. «D’altro non siamo ricchi che di disegno», diceva di sé. E appunto al Maccari pittore è dedicata la mostra appena aperta ad Acqui Terme («I Maccari di Maccari», palazzo Liceo Saracco, Corso Bagni 1, fino al 30 agosto, catalogo Mazzotta), curata con straordinaria passione da Marco Vallora, che ha saputo radunare una serie di ottime opere (circa centocinquanta), attingendo a quelle che l’artista aveva sempre tenuto per sé. Di qui il titolo della rassegna. Sono esposti anche i disegni della serie «Dux» che esprimono la delusione di Maccari nei confronti del fascismo, dipinti nel 1943 e non più esposti da tempo, quasi degli inediti.

Non tutti i quadri di Maccari sono belli. Questa, si intende, è una regola che vale per ogni autore. Ma in più, come accade spesso agli espressionisti, Maccari nei momenti meno felici indulge alla grevità, alla laidezza. Eccede, insomma. E l’eccesso, se diventa grandiosità nei grandi (come Rabelais, a cui diceva di ispirarsi), può degenerare altrove in una trivialità indigesta.

Il Maccari migliore, invece, è un colorista dai toni felicemente acidi o velenosamente teneri, che accosta alla sapienza cromatica un linearismo guizzante, creando un popolo di marionette e di gnomi, più spesso di larve. Non a caso Longhi diceva che le sue donnine «sfilano come girini in crescenza».

Mino Maccari era nato nel 1898 a Siena, dove aveva compiuto studi di legge. Dopo la guerra, in cui aveva combattuto nell’artiglieria, aveva iniziato senza entusiasmo a lavorare nello studio di un avvocato. Nel 1924, la svolta. Un certo Angiolo Bencini, di Poggibonsi, gli chiede di collaborare al settimanale che aveva fondato, Il Selvaggio. Maccari accetta, pubblica sulla rivista le prime caricature e nel giro di due anni ne diventa il direttore, abbandonando la professione legale. Da quel momento, con l’aiuto di artisti e intellettuali come Longanesi, Soffici, Malaparte, Carrà, Il Selvaggio (che si trasferisce prima a Firenze, poi a Siena e, nel 1932, a Roma) raduna intorno a sé un gruppo tra i più vitali dell’epoca.
Padre del movimento di Strapaese (che, a dispetto del nome, non era affatto una corrente gretta e vernacolare, ma aspirava a un’arte anti ermetica che «andasse incontro al popolo», secondo i precetti di Mussolini), Maccari ha combattuto il vero provincialismo, che è quello della mediocrità. Nella sua pittura ha saputo guardare a Grosz, a Matisse, a Kokoschka, insomma al grande espressionismo europeo, dimostrando che essere provinciali non dipende da dove si vive, ma da come si pensa.

E che quindi si può essere provinciali a Manhattan, e non esserlo a Rio Bo.

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