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"Macché informazione, sui social si parla come al bar"

Maurizio Costa (presidente Fieg): "Le nuove piattaforme tecnologiche non sono il male. Ma qualche regola ci vuole"

"Macché informazione, sui social si parla come al bar"

«Demonizzare in modo acritico i social sarebbe sbagliato. Ma di sicuro il loro mestiere non è quello di produrre informazione. Lo dice anche Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook: non sono un editore, dirigo una società tecnologica». Maurizio Costa degli editori italiani è, dal 2014, il presidente, un incarico che conferma la sua vocazione ecumenica: per 16 anni è stato amministratore delegato della Mondadori controllata dal gruppo Fininvest-Berlusconi. Poi è diventato presidente di Rcs, garantendo il delicato passaggio di poteri tra i soci storici (Mediobanca e Fiat tra gli altri) e il nuovo patron Urbano Cairo. Oltre che presidente della Fieg, è anche nei cda di Mediobanca ed Amplifon.

Demonizzarli è sbagliato, ma di sicuro i social network hanno cambiato il mondo.

«La digitalizzazione ha cambiato il mondo e la parola chiave è disintermediazione. L'era digitale ha fatto saltare il ruolo degli intermediari. E in molti campi le ricadute sono positive: basta pensare ai casi in cui venditore e compratore si parlano direttamente. Su internet possiamo fare la spesa, comprare viaggi, auto, case. Poi ci sono ambiti più delicati dal punto di vista sociale. Prendiamo ad esempio quello della salute, dei vaccini. Ricorderà che un virologo famoso, Roberto Burioni, ha detto di non accettare di discutere di vaccini con chi non ha studiato. Perché anche se il 99% della popolazione mondiale pensa che due più due faccia cinque, due più due continuerà sempre a fare quattro. La scienza non va a maggioranza. È la rivendicazione del fatto che in certi casi un contributo di professionalità è indispensabile. Umberto Eco diceva che i social media danno il diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar. Sono due affermazioni sicuramente forti, ma che collocano il mondo dei social media nel loro giusto ambito, che non ha niente a che vedere con quello della autorevolezza scientifica e professionale. Senza dimenticare che la disintermediazione ha avuto effetti anche in altri campi».

Cioè?

«Il tema è quello dei cosiddetti corpi intermedi. Fino a qualche anno fa riflessione e confronto venivano mediati da un reticolo di associazioni, partiti, sindacati. Adesso, come si dice, uno vale davvero uno. Il tutto per via di internet».

E nel mondo dell'informazione?

«Nel mondo dell'informazione è lo stesso. Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera, ha detto che un conto è la società dell'informazione e tutt'altra cosa è la società della conversazione. Mi pare convincente».

Che cosa intende?

«La società dell'informazione è quella delle news intese in senso tradizionale. Di chi raccoglie, verifica, contestualizza e diffonde notizie secondo le regole del giornalismo, con standard qualitativi elevati e certificati. Parlo di un'editoria che investe risorse in una struttura professionale. I social invece non producono nulla di originale, semmai sfruttano i contenuti altrui e alimentano appunto quella società della conversazione di cui parlavamo, quelle conversazioni che una volta, come diceva Eco, si facevano tra amici al bar. E non è fuori luogo ricordare che talvolta assumono aspetti deteriori e diventano cassa di risonanza per campagne di insulti».

Almeno per un paio di aspetti incrociano i mass media tradizionali: sono concorrenti nella distribuzione dei contenuti e nella raccolta pubblicitaria. Non è roba da poco. Quali sono i numeri?

«Parto da una fotografia generale degli investimenti pubblicitari in Italia. Per il 2016 le cifre ufficiali dicono che gli investimenti totali sono stati 6,4 miliardi di euro. Ma a questa cifra manca un convitato di pietra. I grandi operatori della Rete Google e Facebook non comunicano i loro fatturati, ma, secondo stime attendibili, portano il totale a quasi 9 miliardi. Di questi investimenti quasi il 50% va alla televisione, oltre il 25% va a coloro che ho definito convitati di pietra, e del restante 25% all'editoria finisce una fetta intorno al 15%. Quindi oggi nel mercato ci sono dei player esentasse che fatturano quasi il doppio di tutta l'editoria quotidiana e periodica».

I giornali producono notizie e sopportano i costi relativi. In Rete poi le news rimbalzano da un sito all'altro e chi le ha prodotte finisce per perderne il controllo senza ottenerne i relativi ricavi.

«I meccanismi sono diversi da caso a caso. In generale ai grandi player della Rete interessa conoscere chi entra nel loro mondo, individuando il profilo commerciale degli utenti. Su questa base vengono tracciati abitudini e interessi del visitatore. Con sofisticati algoritmi si differenzia chi si occupa, ad esempio, di cucina, piuttosto che di viaggi o di moto o di qualsiasi altro settore. È questo profilo che viene offerto agli inserzionisti pubblicitari».

La raccolta avviene in Italia ma le tasse vengono pagate in Paesi con fiscalità bassissima. Da tempo si parla di un accordo per sanare il passato e di nuove norme ad hoc per i colossi del digitale. Per ora però non se ne è fatto nulla. Voi cosa ne pensate?

«Il principio è semplice e non mi sembra contestabile: i redditi prodotti in Italia dalle multinazionali del web vanno tassati nel nostro Paese. Indipendentemente dalle soluzioni tecniche che si possono trovare, bisogna superare una situazione che non è più sopportabile e che oggi genera disparità di trattamento tra le imprese, favorisce l'evasione e l'elusione e finisce per distorcere la concorrenza».

E a portare visitatori, almeno su Google News, sono i link a giornali e siti giornalistici.

«Su questo aspetto la posizione della società americana è chiara: Google News non raccoglie pubblicità e quindi non sottrae risorse, ma anzi porta traffico ai siti dei giornali».

Di fronte a questa posizione gli editori, almeno in Europa, hanno reagito in maniera diversa da Paese a Paese. Voi che atteggiamento avete?

«Ci sono stati almeno tre tipi di reazioni: in Francia, per esempio, Google si è accordata con il governo per finanziare un fondo di 60 milioni. Di questa cifra però non risulta che gli editori abbiano fatto un uso significativo. La posizione tedesca è molto dura: da bravi teutonici si sono dati da fare per una applicazione meticolosa del diritto d'autore e hanno messo sotto accusa la posizione dominante di Google e dei cosiddetti over the top, gli operatori della Rete, a livello di Commissione europea. Gli editori spagnoli hanno invece direttamente deciso di bloccare i link alle notizie di Google News».

E quindi?

«Noi pensiamo che un confronto muro contro muro non sia utile a nessuno. In particolare con Google ci siamo prima scontrati e poi confrontati a lungo e devo dire che abbiamo trovato un accordo di collaborazione positivo. Un accordo in cui si riconosce l'importanza del diritto d'autore e ci si basa su due punti fondamentali: la valorizzazione dei contenuti editoriali e il riconoscimento dell'importanza per gli editori di disporre ed utilizzare informazioni di valore strategico, cioè i dati lasciati in Rete dai navigatori».

Con Facebook invece che rapporti avete?

«Con loro stiamo iniziando a parlare ora. Hanno manifestato l'interesse a iniziare un dialogo e noi siamo disponibili. Le differenze tra i due modelli sono evidenti: Google è un motore di ricerca, Facebook è un social network che utilizza i contenuti giornalistici per generare traffico, massimizzare il numero dei contatti e vendere pubblicità».

I social network sono comunque il terreno di diffusione privilegiato delle cosiddette fake news.

«Fake news, fatti alternativi, post verità: ultimamente sul tema c'è molta attenzione e sulla Rete c'è davvero di tutto. Dai falsi fatti in casa che diventano virali, ai siti registrati all'estero che imitano i nomi delle testate più autorevoli. Tutto questa crea confusione e disorientamento. L'unica risposta possibile è un'informazione che obbedisce a criteri professionali, acquista autorevolezza e crea fiducia tra i propri lettori rafforzando la credibilità del brand, della testata. Nei social le notizie vengono ordinate da un algoritmo tecnologico segreto e gli utenti sono in gran parte anonimi, i mass media professionali lavorano invece con l'algoritmo della credibilità, fatto da giornalisti che ci mettono la faccia».

Contro le fake news sono stati proposti degli organismi istituzionali di controllo. Che cosa ne pensa?

«Una proposta è arrivata dal presidente dell'Antitrust Giovanni Pitruzzella, che ha parlato di un'Authority indipendente a livello europeo per combattere le bufale online. Il presidente dell'Upa, l'associazione degli utenti pubblicitari, ha ipotizzato invece un istituto di autodisciplina in cui coinvolgere e responsabilizzare al rispetto di codici di comportamento rigorosi gli over the top. Sono due proposte interessanti e condivisibili, da approfondire. Ne potranno emergere anche altre e noi, come Federazione degli editori, siamo disponibili ad avere un ruolo attivo. Sempre nel senso della trasparenza e della correttezza delle informazioni in Rete».

Su questi temi la reazione dei grandi gruppi del web quale è stata?

«Facebook ha introdotto dei freni automatici, studiando dei meccanismi per ridurre la visibilità di articoli di dubbia credibilità e ha lanciato trending topics, un meccanismo che nelle intenzioni dovrebbe dare una gerarchia privilegiata alle informazioni autorevoli e certificate. Negli Usa e in Germania si sta anche sperimentando la possibilità di segnalare falsi che vengono etichettati come controversi, con link a un articolo che spiega perché. Le notizie restano visibili, ma gli utenti sono avvisati. Quanto a Google, attraverso Adsense, il servizio di pubblicazione di banner pubblicitari, ha dichiarato di voler far pulizia ed escludere dal proprio network siti poco trasparenti. Stando a quanto dichiarato, per ora i siti cancellati sono stati circa 200. Un'iniziativa meritevole, ma francamente una goccia nel mare».

Dunque?

«Il problema è quello del chi custodisce i custodi. Non è credibile un sistema di controllo lasciato in mano ai diretti interessati; l'autoregolamentazione da sola non funziona. Ci vogliono criteri non burocraticamente censori, ma arginare la diffusione di informazioni palesemente false è necessario. E a occuparsene dovrebbe essere una autorità terza e indipendente. Di sicuro quello che non ha alcun senso fare è appellarsi ad anacronistiche giurie popolari».

Notizie false a parte, la marcia dei social sembra inarrestabile.

«Più in generale è la diffusione del digitale nel mondo dei media ad essere inarrestabile e ad essa non attribuisco affatto una connotazione negativa, anzi. Al contrario l'evoluzione in corso può offrire grandi opportunità a chi opera nel mondo della comunicazione. Certo ci vogliono professionalità, eticità e rigore. E peraltro le numerose Cassandre sul futuro dell'editoria sono già state smentite dai fatti. Nel 2007 Arthur Sulzberger jr., editore del New York Times, dichiarò che non era sicuro che il suo giornale sarebbe stato ancora in edicola nel 2013. Il 2013 è passato e si è detto che l'ultima copia del giornale sarà stampata nel 2043. Certo, i giornali sono in profonda trasformazione e in futuro non saranno come quelli di oggi, ma sicuramente quanto più aumenta il rumore di fondo dell'informazione in Rete, tanto più diventa necessario poter contare su un'informazione credibile che offra dei punti di riferimento. Un esempio per tutti: si è detto che l'e-book avrebbe soppiantato il libro di carta. Non è avvenuto e anzi l'editoria libraria conferma il suo ruolo fondamentale.

E il moltiplicarsi dei canali distributivi ricorda agli editori il loro vero mestiere: gli editori non si occupano dei supporti su cui le notizie viaggiano, ma dei contenuti».

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