Cultura e Spettacoli

"Macché Valchiria tecnologica solo qualche effetto di luce"

Il mezzosoprano Meier ridimensiona la storica svolta del regista Cassiers: "Semmai ci vorrebbe più psicologia"

"Macché Valchiria tecnologica solo qualche effetto di luce"

Era stata prospettata una Valchiria hi-tech, di quelle che turbano il sonno degli aficionado degli spettacoli d’opera di tradizione, stile «Mamma, li turchi!». Si raccontava di una produzione visionaria, con dispiego di video, fasci di luce, proiezioni di siluette, globi lunari per un Wagner – appunto l’autore di Valchiria – annunciato altamente tecnologico. Macché modernità, si lavora con questo armamentario da anni, ridimensiona Waltraud Meier, fra i cantanti di punta del cast dell’opera con cui apre la stagione del teatro alla Scala, il prossimo 7 dicembre. Intorno alla regia, del belga Guy Cassiers, bocche cucite per i giovani del cast. Cauti i non più giovanissimi debuttanti alla Scala, il basso Sir John Tomlinson, nel ruolo del marito tradito Hunding, che britannicamente attenua i toni.

Il mezzosoprano tedesco Waltraud Meier, alla sesta «prima scaligera», 16 ruoli wagneriani maturati in 35 anni di carriera e un carattere che più teutonico non si può, dichiara che la «regia è tra le più semplici mai viste. Noi dobbiamo solo sforzarci di stare nel punto preciso del palcoscenico, altrimenti si perderebbero certi effetti». La signora, che sarà Sieglinde, rimarca continuamente che ama entrare nelle viscere dei suoi personaggi e che non sopporta le regia volte alla ricerca degli effetti, le chiediamo dunque se in questa Valchiria la psicologia dei personaggi sia analizzata a sufficienza. Fra i cantanti, nella sala Rossa della Scala per raccontarci Valchiria, scatta un incrocio di sguardi, sfuggono sorrisetti sornioni, ed è poi Frau Meier a inchiodare un bel «No». Tomlinson, un wagneriano con 18 produzioni a Bayreuth (il teatro-icona di Wagner), va per vie diplomatiche. E spiega che «si è semplificata l’azione perché si deve fare ben attenzione a non uscire dai punti dove viene proiettata la luce. C’è comunque una bella atmosfera nel primo atto». E la Meier, a rincalzo, «Sì, ma è lavoro che hai fatto tu».

Bello questo cast internazionale (neanche l’ombra di un italiano), che pure offre interessanti spunti di geografia umana. Prussianamante, la Maier va dritta al concetto e non si tira indietro, Sir John la butta sugli eufemismi, la russa Ekaterina Gubanova (Fricka) sta zitta. Nina Stemme, attesissimo soprano svedese, prende nordiche distanze e parla solo del suo personaggio: Brunilde, la valchiria che si presenta in scena «da adolescente, figlia prediletta di Wotan, poi capisce che il padre fa errori e si ribella facendosi così adulta». Simon O’Neill, tenore neozelandese, nei panni di Siegmund, guarda il bicchiere mezzo pieno e con toni paciosi devia l’attenzione sulla bellezza dell’atto primo, centrato «sulla conversazione a tre, cameristica, di Sieglinde, Siegmund e Hunding». Sieglinde e Siegmund sono i due fratelli colpevoli d’incesto. Vietato fare morali. Wagner «vuole far parlare la natura umana, quella che talvolta sfugge le regole: create per ragioni di convivenza civile», ancora la Meier. Che, a proposito di Sieglinde, parla di «una donna vera, piena di amore, anzi lei è amore puro, la figura più umana dell’intero Ring», cioè del ciclo di quattro titoli wagneriani (Tetralogia) che la Scala sta inscenando fino al 2013: anno delle celebrazioni wagnerane. E il cattivone, Hunding? «La sua è una cattiveria solo apparente.

È un uomo forte e determinato, rispettoso delle leggi. Il punto è che Sigmund arriva e gli porta via la moglie», dice dirigendo lo sguardo verso un corpulento O’Neill. Anche lui, cantante wagneriano di classe, si dice: studi in Nuova Zelanda, quindi a New York, e poi tre anni di gavetta al seguito del tenorissimo, Placido Domingo, in panchina in caso di sostituzioni. Quelle che lo hanno poi lanciato. Dopo il cast dei giovani della prima del 2009, ecco insomma un cast che giovanissimo non è, ma è senza dubbio wagneriano.

Una compagnia di cantanti non proprio convinta della regia, ma che fa corpo unico quando si fa il nome del grande capo, il direttore d’orchestra Daniel Barenboim.

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