La Madonna di Foligno, tra cielo e terra

È probabilmente sulle impalcature delle Stanze vaticane Raffaello quando gli viene chiesto di dipingere una grande pala come ex voto per il miracolo della casa di Foligno colpita da un fulmine, proprietà di Sigismondo de' Conti, segretario di Papa Giulio II. Per alcuni il committente è lo steso Papa, per altri il de' Conti, che morì nello stesso anno in cui l'opera fu compiuta, 1512.
Il fatto certo è che la pala fu destinata alla Chiesa di Santa Maria in Ara Coeli, a Roma, dove ebbe sepoltura il pio Sigismondo. Più tardi, nel 1565, fu trasferita, per volontà di una monaca, nipote del donatore, nella Chiesa di Sant'Anna a Foligno, presso il monastero delle Contesse della Beata Angelina dei Conti di Marsciano. E da Foligno fu portata a Parigi, nel 1797, in seguito alle invasioni napoleoniche. Trasportata su tela per ragioni di conservazione nel 1800-1801, tornò in Italia nel 1816 con il Trattato di Tolentino, ma Papa Pio XVII Chiaramonti decise di destinarla alla Pinacoteca Vaticana.
Nel momento in cui la dipinge Raffaello è impegnato nella parte più romantica degli affreschi in Vaticano, quelli della stanza di Eliodoro. La pala appare veramente rivoluzionaria, e, confrontata con le sacre conversazioni tradizionali, e spesso anche particolarmente originali, è assolutamente innovativa, annullando la distanza tra cielo e terra, tra figure sacre e santi. Lo scambio è talmente ineludibile che Raffaello costringe, sulla scorta degli angeli musicanti nelle pale d'altare precedenti, un angioletto con una targa in mano, piombato dal cielo a consacrare anche lo spazio della terra.
Emanuele Trevi, che è uno scrittore molto sottile, parlando della pala di Foligno, fa un singolare errore. E scrive. «E come dal latte vien fuori la ricotta, dai cumuli di nuvole ecco apparire gli angeli, quei meravigliosi cherubini che si posso considerare, a questo punto, come la quintessenza dell'atmosfera». Non è vero, quelli nella pala di Foligno sono serafini. I cherubini sono rossi, e sono rossi, perché rappresentano l'amore infuocato per Dio. Un amore sentimentale.
Le gerarchie angeliche sono la cosa più rigorosa del mondo celeste. Gli angeli più vicini a Dio sono i serafini, e sono, come dice Dante, ispirati dalla luce della ragione, quindi azzurri. Azzurra è la ragione, rosso è il cuore. I cherubini sono rossi. Azzurri sono i serafini, gli angeli più vicini a Dio. Il cherubino è una testa d'angelo rosso con le ali, mentre il serafino è una testa azzurra con le ali. I serafini si confondono, nella loro luce azzurra, intorno a una mandorla, a una sfera dorata, che è la luce assoluta di Dio. Come il sole. Questo è ciò che Dio esprime. I serafini gli stanno intorno. Nel suo cielo e nella sua luce la Madonna, totalmente umana, è assunta in cielo con un bambino molto bizzarro, che non sta tranquillo, si agita. E viene guardato dal suo compagno che sta sotto, temporaneamente sceso a terra. Non sappiamo cosa vorrà dirgli, perché nella targa che tiene in mano non c'è scritto nulla; è forse po' triste per essere andato sulla terra, ma ha le ali per tornare al suo posto, mentre sembra che Gesù lo chiami, in un dialogo tra l'alto e il basso.
La sua presenza serve a dire che, in questa pala d'altare, si stabilisce un rapporto tra ciò che è in cielo e ciò che è in terra, che è lo stesso spazio: non c'è una differenza tra gli uomini, la Vergine e Gesù, uomo e Dio. Mai i due livelli furono così vicini, in uno spazio unitario, con un movimento e un ritmo musicali, che raddoppiano lo spazio celeste, con la Madonna seduta fra le nuvole in un disco dorato entro il coro di serafini, e quello terrestre con il riflesso naturalistico dell'arcobaleno, sotto il quale, come per grazia divina, sembra trovare protezione il borgo con le case trasfigurato nella luce. Un borgo protetto dalla Vergine e dai santi che la venerano, la indicano e chiedono grazia per il Sigismondo nel momento in cui si prepara a entrare in paradiso: San Giovanni Battista, San Francesco D'Assisi e San Gerolamo.
Ma il centro del dipinto è il paesaggio con la casa preservata dal fulmine o dal bolide. Raffaello restituisce a una unità d'ispirazione i riferimenti a Leonardo della Vergine e a Michelangelo del bambino agitato, insieme a un calore di fiamma che rende incandescente la veduta di paese come la restituì, nei sui paesaggi visionari, Dosso Dossi, il pittore ferrarese che Raffaello incrociò nelle Stanze vaticane. Nessun paesaggio di Raffaello è più luminoso, scintillante, favoloso. A questa armonia ideale si aggiunge il realismo del ritratto, scavato e dolente, del committente malato e sofferente. Ben prima dei memento mori di Guercino e di Poussin, Raffaello sembra esclamare, attraverso questa visione turbata dalla morte: «Et in Arcadia ego».
La Madonna guarda con benevolenza gli uomini e reclina il suo sguardo in particolare su Sigismondo de' Conti che ha chiesto la pala. L'arcobaleno, che sembra generato, da sole divino, tiene insieme, come un anello, il mondo del cielo e quello della terra. Proprio come Dosso, Raffaello dipinge un paesaggio di sogno, onirico, in cui la luce che arriva dall'arcobaleno, e rende brillanti gli edifici, è anche quello colpito è stato preservato dalla grazia divina.

Et in tempesta deus.

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