La maldestra corte (senza conti) a Speciale

Da qualche settimana le edicole, le librerie e i talk show alla Tv sono invasi da quello che è stato definito il male della politica. Male oscuro, oscurissimo e che ci si ingegna a rendere sempre più incomprensibile: la politica costa troppo, la politica pensa solo a sé stessa, vive una vita separata, fatta di riti esoterici, il popolo reagisce ostentando un distacco dai partiti, dal governo, dalle istituzioni. In realtà non è proprio così: nelle elezioni amministrative gli italiani hanno mostrato di avercela con il governo, e sapremo nella serata di domani coi risultati dei ballottaggi, quanto il giudizio risulterà confermato.
La settimana appena conclusa sta a dimostrare però che il governo non ha tratto alcun insegnamento dagli eventi. Il caso Visco-Speciale è da manuale. Il governo ha cercato in un primo tempo di cavarsela in modo che voleva essere o sembrare salomonico: Visco rinuncerà alla delega sul corpo della Finanza, il generale viene sostituito, si propone per lui una nomina alla Corte dei Conti. Ma lo stesso governo ha poi guastato tutto. Nelle dichiarazioni di ministri e capibastone, abituati a parlare a ruota libera, si è avvertito il malanimo verso il generale, e nel dibattito a Palazzo Madama il ministro Padoa-Schioppa ha pronunciato una filippica nella quale il comandante della Guardia di Finanza veniva accusato di essere sleale verso il governo, di gestire la Finanza come un corpo separato, di essere un individuo inqualificabile, addirittura. Non si capisce bene perché il professore, l’economista freddo e compassato si sia trasformato, per l’occasione, in un Saint Just o in un Vyshinskij. Mastella lo aveva avvertito: se il generale è quello che dite, nessuno riuscirà a spiegare agli italiani perché mai gli abbiamo riservato una collocazione prestigiosa, alla Corte dei conti, che non è l’ultima delle istituzioni dello Stato.
Va detto che a rendere insanabile la contraddizione ha contribuito l’atteggiamento limpido del generale il quale, rifiutando la nomina offertagli e anzi parlandone come di un baratto, o di un «contentino», ha chiarito che il problema non poteva essere, come pensa il governo, quello di una sistemazione decorosa e di uno stipendio adeguato.
E a guardar bene, la ragione vera dell’ira montata nei suoi confronti e letta da Padoa-Schioppa in Senato sta proprio qui: il generale, rifiutando la sistemazione offertagli, ha messo alla berlina una pratica sulla quale si regge il sistema partitico che ci governa. Aggiungo che in fondo, un atteggiamento analogo avrebbe dovuto assumerlo anche Visco. Non si capisce perché alla solidarietà, alla stima tributategli senza risparmio, abbia dovuto accompagnarsi la sanzione della rinuncia alla delega sugli affari della Finanza.
Fra i due, è vero anche questo, la differenza c’è e si vede. Visco è un esponente di quella nomenklatura di partito che ritiene il compromesso, per quanto miserevole, un prezzo da pagare in una carriera che si distingue più per la sua durata che per i suoi meriti. È il tarlo di una classe politica fra le più vecchie al mondo. Meglio si faceva solo nell’Unione Sovietica dei Breznev e dei Cernenko che morivano abbrancati allo scettro del potere. Altra cosa è la moralità di un soldato il quale, dinanzi a una proposta indecente, risponde «no grazie, preferisco andare in pensione come comandante della Finanza». E che aveva chiesto in fondo solo di restare in carica fino al 21 giugno, per vivere ancora una volta la Festa dell’Arma: con gli ufficiali, coi militari, con le famiglie. Il riguardo non gli è stato concesso, ed è stato un peccato. Per lui, ma anche per il Paese al quale si poteva risparmiare una pagina così brutta, e che tutto lascia credere sia tutt’altro che chiusa. È stata un’altra settimana nera per la sinistra distintasi, questa volta, per prepotenza ma anche per sciatteria nella conduzione degli affari più delicati dello Stato.
a.

gismondi@tin.it

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