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Mantovani rimane in carcere ma i giudici non dicono perché

Negata la scarcerazione all'ex vicepresidente lombardo. Le toghe non depositano le motivazioni: una prassi inusuale che allunga i tempi per il ricorso in Cassazione

Mantovani rimane in carcere ma i giudici non dicono perché

Che il clima non stesse volgendo al bello Mario Mantovani lo aveva capito fin dal primo pomeriggio di martedì, nella sua cella al terzo raggio del carcere di San Vittore, quando le lancette avevano scavallato l'orario in cui le cancellerie chiudono e i giudici depositano le loro decisioni. Se all'ex presidente della Regione Lombardia, in carcere dal 13 ottobre per concussione e corruzione, i giudici avessero concesso la scarcerazione, una guardia avrebbe bussato alla sua porta e lo avrebbe portato all'ufficio matricola. Invece niente a ritirare orologio e cravatta. Quello che Mantovani forse non si aspettava era che i giudici lo tenessero in galera senza spiegargli perché.

E invece esattamente questo è quanto accaduto. Dopo tre settimane dall'arresto, i motivi per tenere in carcere Mantovani - che nel frattempo ha lasciato tutte le cariche - sono così complessi che i giudici del tribunale del Riesame non sono riusciti a scrivere le motivazioni della loro decisione nei cinque giorni che il codice prevede per la decisione. Quindi alle 18 di martedì sera, quando su Milano e San Vittore ormai erano calate le tenebre, si sono limitati a consegnare in cancelleria un provvedimento di poche righe: la richiesta di scarcerazione è respinta. Come e perché, ve lo faremo sapere.

Nulla di illegale, si badi. È il codice di procedura penale a prevedere che le ordinanze del tribunale del Riesame possano venire motivate in differita: trenta giorni, che diventano quarantacinque se il caso è particolarmente complesso «per il numero degli arrestati o la gravità delle imputazioni». Ma la prassi del tribunale di Milano è di emettere decisioni e motivazioni in un colpo solo. Stavolta si è deciso diversamente, anche se il numero degli arrestati di cui occuparsi è solo uno, e la complessità delle imputazioni minore che in altri casi. E si può aggiungere che al giudice preliminare Stefania Pepe, quella che aveva ordinato l'arresto e per prima aveva interrogato Mantovani, erano bastati cinque giorni per respingere l'istanza di scarcerazione e per scrivere le motivazioni: che non avevano convinto la difesa («resta comunque un influente politico a livello nazionale», aveva scritto il gip) ma almeno erano state messe nero su bianco.

L'attesa non è priva di conseguenze, perché fino a quando i giudici non depositeranno la sentenza nella sua versione integrale il difensore di Mantovani, Roberto Lassini, non potrà presentare ricorso in Cassazione, l'ultima chance per interrompere una carcerazione preventiva che la Procura sembra intenzionata a prolungare a lungo, forse fino al momento del processo (o della confessione). Il legale di Mantovani, Lassini, evita la polemica diretta, ma sa bene che ormai portare la questione fuori da Milano, all'esame dei giudici romani, è una strada obbligata. Ma finché non si saprà perché secondo le toghe milanesi Mantovani debba stare dentro, è impossibile contestare.

L'inchiesta su Mantovani, insomma, pare destinata ad avere dei tempi fuori dal comune, dilatati in modo inconsueto. L'anomalia del tribunale del Riesame si aggiunge infatti all'altra stranezza dell'inchiesta a carico dell'ex assessore alla Sanità, il tempo incredibilmente lungo passato tra la richiesta di arresto avanzata dal pm Giovanni Polizzi e l'ordinanza con cui il giudice Stefania Pepe.

Tredici mesi, una infinità, che ha portato anche esponenti della sinistra a avanzare dubbi: se Mantovani era pericoloso, perché lasciarlo in circolazione così a lungo? E se non era pericoloso, perché sbatterlo dentro? Anche a questa domanda sarebbe interessante leggere le risposte dei giudici del Riesame.

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