Con Marini l’Unione volta le spalle a metà degli italiani

Pietro Mancini

La delicatissima partita di Palazzo Madama si è finalmente risolta a favore del candidato prodiano Franco Marini, anche se ai tempi supplementari e dopo una giornata inquietante, confusa e tesissima e una nottata densa di promesse e di minacce dai «franceschi tiratori». Rimane l’intelligente e accorta mossa di Berlusconi e di Gianni Letta. I quali, designando il senatore a vita Giulio Andreotti, si sono posti il problema politico sinora completamente ignorato da Prodi, cioè quello di dialogare con la metà degli italiani che ha votato per la Casa delle libertà. Il Cavaliere ha accentuato i nervosismi, le spaccature e le difficoltà nel fronte progressista, già dilaniato dalle polemiche sulla forzata rinuncia di D’Alema a favore del «parolaio rosso» Bertinotti alla presidenza della Camera, e dalla prevalenza dei «falchi» massimalisti nelle due Camere. L’ex capo della «Balena bianca», che in 60 anni di battaglie ha dovuto superare bufere di ogni tipo, anche stavolta si è comportato da leader con grande dignità e senso delle istituzioni. E non si è fatto intimidire dai violenti attacchi, come quelli sferratigli ogni giorno dal quotidiano più vicino a Prodi, la Repubblica, che è arrivato a parlarne come del «tarlo, che ha minato la stabilità delle istituzioni» e che ieri, vergognosamente, gli ha dato del «venduto a Berlusconi».
Forse il senatore a vita stavolta avrà sorriso per i giudizi confinanti con il disprezzo («Giulio Caimano», l’uomo dell’«immoralità sostanziale, dell’eversione di Stato, della protervia istituzionale»), appioppatigli dal giornale di Scalfari. A don Eugenio il senatore non si è mai rivolto per chiedergli consigli. A differenza di Ciriaco De Mita, di Franco Marini e di tanti esponenti della sinistra dc, sempre ossequiosi con Scalfari, così come con Luciano Violante e Anna Finocchiaro, tutti usciti indenni dalle bufere giudiziarie che si sono addensate sulla testa di Andreotti e di tanti esponenti della Dc e del Psi. I quali, nei drammatici primi anni ’90, denunciarono gli eccessi giustizialisti della sinistra e pagarono duramente per aver mantenuto le schiene dritte, anziché ritirarsi a vita privata. E che adesso temono, a Palermo come a Roma, nuove «ordalie» politico-giudiziarie...
Tutto il fronte dei «professionisti dell’antimafia» di sciasciana memoria ha tifato per Marini e contro Andreotti: da Leoluca Orlando a Nando dalla Chiesa fino al pubblico ministero di Palermo, il caselliano Ingroia, consulente «storico» di Nanni Moretti. Dal momento che zu Giulio - come, secondo il fallace «teorema Buscetta» i boss chiamavano il senatore - non rinunciò alla sua abituale flemma, neppure quando l’Unità arrivò ad addebitargli la gravissima colpa di essere rimasto in vita sino all’epilogo del suo calvario giudiziario.
In realtà, l’ascesa di Andreotti alla seconda carica dello Stato non sarebbe stata digerita molto facilmente dai settori del centrosinistra, che non gli hanno chiesto scusa neppure dopo l’ultimo suggello della Cassazione al clamoroso flop dell’«inchiestona del secolo», istruita per complicità con la mafia da Giancarlo Caselli.
Anche se in politica - dove per molti contano più spesso le poltrone - spesso la coerenza non è una qualità molto seguita, sarebbe stato auspicabile che il senatore Mastella, chiamato a scegliere tra i suoi due ex colleghi della Dc, non avesse privilegiato anche stavolta i promessi incarichi ministeriali, dimenticando la giusta scelta garantista che fece all’avvio del processone Andreotti a Palermo.

Allora l’attuale segretario dell’Udeur, insieme a Casini, si recò a solidarizzare con l’imputato non credendo, come la maggioranza degli italiani, alle panzane dei «pentiti» sul bacio tra Totò Riina e il senatore a vita.

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