Roma

Martedì Grasso, la storia porta a via del Corso

Martedì grasso via del Corso, teatro del carnevale romano, dal tramonto «era un fiume di fuoco» - scriveva il De Millin - per l’esplodere della festa dei moccoletti. Alla luce di candele - grandi come un cero pasquale o sottili come la «coda di un sorcio» - lampioncini di carta trasparente accesi sui palchi, sulle finestre, sui balconi e tra carrozze illuminate da piccoli candelabri all’altezza del mantice, un’enorme e chiassosa folla in maschera si riversava nel centro di Roma per celebrare la fine del Carnevale in un crescendo di balli, canti e scherzi che non di rado però sfociavano in liti e risse tanto da costringere il governatore di Roma a emanare nel 1790 un editto per disciplinare l’uso dei moccoletti.
Ogni romano in mezzo a una allegra confusione, che annullava ogni differenza di classe e di censo, portava tra le mani o sul cappello oppure in cima a una canna un lumino, adoperandosi per mantenerlo acceso e divertendosi con qualsiasi stratagemma a tentare di spegnere quello di un altro al grido: «Morammazzato chi non regge il moccolo!». Si arrivava al punto di calare dalle finestre dei panni bagnati con cui spegnere quanti più moccoli fosse possibile.
Un divertimento ancor vivo nell’Ottocento, la cui eco si prolungò fino ai primi anni del secolo successivo, come ricorda Giggi Zanazzo nelle «Tradizioni popolari romane». «L’urtimo ggiorno de Carnovale - scriveva il poeta - ammalappena sonava l’Avemmaria (anticamente sparava puro er cannone), tutti quelli che sse trovaveno p’er Corso, sii a ppiede, sii in carozza, sii a ccavallo, sii a le finestre, accennéveno li moccoletti. Poi co’ le svèntole, co’ li mazzettacci de fiori, o co’ le cappellate, ognuno cercava de smorza’ er moccolo all’antro, dicènno: - Er móccolo e ssenza er móccolo! Avevi voja, pe’ ssarvallo, de ficcallo in cima a una canna o a un bastone, o a fficcatte in un portone! Era inutile. Tutti te daveno addosso; e o ccor un soffietto, o ccor una svèntola o cco’ ’na manata o ’na mazzettata te lo smorzaveno in ogni modo, urlanno: - Er móccolo e ssenza er móccolo; abbasso er móccolo!».
Il carnevale, che per secoli costituì una delle maggiori attrattive per scrittori, cronisti e suggestionò i pittori in visita a Roma, moriva con l’ultimo moccolo che si spegneva, ma con la consolazione di una cena rigorosamente di «grasso» nelle osterie fino a mezzanotte. «Pe’ mmé vvojjo annà a lletto a ppanza piena / e pprima me darìa la testa ar muro / che cchiude un carnovale senza scena», scriveva G.G. Belli.

Perché il giorno dopo, ricordava sempre il Poeta di Roma, «è la manguardia de le messe con la pianeta pavonazza e nera domani ar Mementò-chià-purvisesse».

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