Scienze e Tecnologia

Medal of honor, lo scandalo di maggior successo. Di sempre

Giovedì 28 ottobre, in quel di Montecitorio, Antonio Rugghia, capogruppo del Pd nella commissione Difesa, ha tuonato in un'interrogazione al ministro La Russa contro le offese «a tutte le vittime della guerra in Afghanistan». Pochi giorni prima il collega dell'Idv Augusto Di Stanislao, parigrado in commissione di Rugghia, aveva aperto le danze dell'indignazione parlando di «pessimo gusto contro ogni senso di civiltà e di rispetto». Nel mirino di entrambi l'uscita, sul mercato italiano, di «Medal of Honor», l'ultimo capitolo della celebre saga di videogiochi bellici. Basti sapere per ora al profano che non mastica di consolle, mouse o joypad, che come «Full metal jacket» è Il Film di guerra, «Medal of Honor» è Il Videogame di guerra.
Torniamo intanto alla Camera: perché, e perché proprio lì, una simile levata di scudi contro un videogioco? Il fatto è che l'ultimo capitolo di Medal of Honor, il tredicesimo, è ambientato (a differenza dei precedenti, tutti ambientati durante la seconda guerra mondiale) in Afghanistan, nel 2002. Il gioco ricalca le prime fasi dell'operazione «Enduring Freedom», dando la possibilità al giocatore di impersonare diversi personaggi: dal membro dei reparti speciali al ranger, oppure un membro dell'equipaggio di un elicottero da combattimento Apache. Il fatto è che nella versione multiplayer (una partita on-line con più giocatori) è possibile scegliere di impersonare anche le «forze d'opposizione». Cioè, nel caso in questione, i «talebani». Anche se la parola è stata, dopo le pressioni di militari e associazioni di veterani, rimossa un attimo prima della commercializzazione, la sostanza non è, ovviamente, cambiata: quegli uomini barbuti col turbante e lanciarazzi puoi chiamarli «insorgenti», o «resistenti», o «terroristi», o «belligeranti» o, per l'appunto, «forze d'opposizione», ma nell'immaginario di qualsiasi giocatore saranno sempre è soltanto i talebani. Amanda Taggart, capo delle pubbliche relazioni della Electronic Arts, casa di produzione e distribuzione della fortunatissima serie, ha dichiarato: «Quasi tutti giochiamo così da quando abbiamo sette anni. Se c'è qualcuno che fa la guardia, ci deve pur essere qualcuno che fa il ladro».
C'è da dire che se i due politici italiani avessero, prima di dar voce al loro dissenso, buttato un occhio alla stampa estera, forse non avrebbero parlato. Prima di loro aveva infatti puntato il dito contro «Medal of Honor» il ministro della Difesa inglese Liam Fox («è scioccante pensare che qualcuno possa pensare che sia accettabile ricreare le azioni dei talebani contro i soldati inglesi), che ha anche fatto un appello ai commercianti per sospendere la vendita del gioco. Sulla stessa linea le dichiarazioni del suo omologo canadese, e anche quelle del ministro della Difesa danese, Gitte Lillelund Bech, che si diceva sicuro del fatto che la commercializzazione del videogioco «non è qualcosa su cui legiferare. Ho fiducia che i giovani danesi riescano a distinguere fra giusto e sbagliato». Il risultato di tanto clamore? Lo sparatutto in prima persona è schizzato ai vertici delle classifiche di vendita di tutto il mondo. Nel primo week-end negli Usa ha venduto un milione e mezzo di copie, mentre nel Regno Unito dell'attonito Liam Fox al gioiello dell'Electronic Arts è bastato un solo giorno per sottrarre a un certo «Fifa 2011» il primato delle vendite. E, c'è da giurarsi, anche il mercato italiano seguirà lo stesso trend.
Un trionfo commerciale ottenuto grazie anche (ma solo, ci mancherebbe), alla strepitosa pubblicità gratuita fatta al titolo dai politici. Ha un bel da impegnarsi nel fingersi preoccupato delle critiche il numero uno del marketing dell'Ea Craig Owens quando dice «ci sembra che il mondo dei videogiochi sia preso troppo di mira, forse perché le persone che non giocano ai videogame continuano a pensare che siano prodotti per dodicenni».
Ma parliamo, ora, del gioco in sé. «Medal of Honor» è il primo videogioco che mostra gli orrori del cosiddetto «conflitto invisibile». Due anni di programmazione frenetica, un'intera regione del Paese completamente ricostruita in digitale, un equipe di 50 persone che ha ricreato armi, veicoli, ma anche operazioni militari realmente eseguite, e una serie di protagonisti ispirati ai soldati che hanno davvero vissuto sulla loro pelle l'esperienza della guerra. Il risultato? Un realismo e una immersione impressionanti. Se lo Spielberg di «Salvate il soldato Ryan» ti mostrava la vera guerra, «Medal of Honor» ti fa vivere la vera guerra.
Perché quello che il videogiocatore si trova di fronte è più di uno sparatutto: è una sorta di esperienza interattiva in prima persona proiettata nel teatro di guerra più caldo del momento, in un'intera area che va da Kabul a Gardez sino al confine tra Afghanistan e Pakistan accuratamente ricostruita grazie a sofisticate tecnologie satellitari e all'ausilio di migliaia di fotografie e filmati che hanno aiutato gli sviluppatori a ricreare in maniera iperrealistica tutti gli scenari possibili.
Oltre 15 milioni di pagine su Google, 150mila fan su Facebook e 25mila su Twitter fanno il resto. Nata nel 1999 con la collaborazione di Steven Spielberg, la saga Medal of Honor può vantare più di 30 milioni copie vendute in tutto il mondo.

Il gioco introduce un livello di autenticità e interattività tutto nuovo proprio grazie alle storie di guerra vissute dai soldati coinvolti durante lo sviluppo e alle quali il gioco si è ispirato, con il risultato di essere stato definito dallo stesso New York Times Magazine «trasgressivamente reale».

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