Cultura e Spettacoli

«Il mercato è davvero libero se non uccide le libertà»

da Percoto (Udine)

«Sono per il libero mercato, ma vorrei fosse anche aperto e corretto. Soltanto così sarà possibile dar da mangiare al mondo. A tutto il mondo». Frances Moore Lappé somiglia alle sue parole. Che come lei sono fisicamente minute, eppure forti. Che anelano alla libertà, ma pretendono disciplina. Riuscito mix tra i cromosomi dell’Oregon dov’è nata, terra selvaggia di frontiera e di castori laboriosi, e gli afflati democratici - massì, kennediani - respirati nel Massachusetts dove vive e lavora da anni. È lei la vincitrice del Premio Nonino Risit d’Aur 2011, la 36ª edizione di questa epifania furlana in cui la cultura mondiale si raduna e si manifesta una volta l’anno, ogni fine gennaio a Percoto.
Autrice di 17 libri venduti in milioni di copie e insignita per il suo lavoro di 17 - curiosa coincidenza - lauree honoris causa, Frances Moore Lappé (classe 1944) è la fondatrice dello Small Planet Institute di Cambridge, nei pressi di Boston, un network per la ricerca e l’educazione popolare che vuol ridare vera vita alla democrazia. Affiancata dalla figlia Anne ha anche lanciato lo Small Planet Fund, per convogliare risorse a sostegno di movimenti democratici in tutto il mondo. È tuttavia la protezione della Terra e dei suoi prodotti la mission che le è valsa il Nonino e che la vedrà oggi salire sul palco di Percoto. Lei, con logica tagliente che la rivista Booklist ha paragonato a «un raggio laser», coniuga argomenti che ad altri apparirebbero distanti. Come appunto la democrazia diffusa e il rispetto che dovremmo alla nostra antica madre, la Terra, e a quei frutti che continua a offrirci nonostante le nostre ripetute offese.
«Argomenti che distanti non sono - spiega lei -. Basta partire dalla considerazione che noi siamo creature della mente, perché è questo che significa essere umani. Nel tempo, invece, ci siamo creati intorno un mondo in cui come singoli non scegliamo mai, nessuno di noi. Vi abbiamo rinunciato. Il paradosso del cibo ne è l’esempio. Certo, nessuno di noi dirà “voglio che più bambini del Terzo mondo muoiano di fame”, ma è purtroppo ciò che avviene. Altrettanto nessuno direbbe mai che il troppo cibo diventa un azzardo per la salute nei Paesi ricchi. Ma anche questo, ahimè, è ciò che accade. Lo è perché accettiamo, subiamo, senza trovarci tra di noi per dirci che così non va, che bisogna reagire. Tutto parte da un diffuso senso di scarsità. La cultura dominante ci ha indotti a ritenere che non abbiamo mai abbastanza di nulla e questo ci porta a competere, con la conseguenza paradossale di essere noi stessi a creare la scarsità che temiamo. Abbiamo dato via tutto al mercato. Che è straordinario. Ma vorrei ricordare come quel suo aggettivo, libero, significhi innanzitutto libertà di partecipare. Per tutti. Il che comporta correttezza. Altrimenti esso diventa un idolo e noi i suoi schiavi. Pensiamo al Monopoli...».
Il Monopoli? Davanti all’altrui stupore, lei sorride divertita. «Certo, il gioco da tavolo. Fu inventato ai primi del ’900 da una maestra quacchera per spiegare agli allievi la potenziale degenerazione di un sistema in cui la ricchezza torna sempre e soltanto alla ricchezza, e poi ancora alla ricchezza e così via, finché un unico giocatore, in una sola notte, può ritrovarsi a possedere tutto. E gli altri nulla. Tutto ciò mi va bene finché resta un gioco... Penso soprattutto al cibo e all’agricoltura. Negli ultimi vent’anni i Paesi poveri sono stati costretti a moltiplicare le importazioni di cibo, con conseguente fortissima moltiplicazione dei costi. Non è che quella gente non sappia produrre cibo: sono i governi corrotti a renderlo impossibile. E ad appesantire i loro costi ci siamo anche noi del mondo ricco, diminuendo il nostro export. Dobbiamo avere maggiore fiducia in noi perché la speranza non è ciò che vediamo sotto i nostri occhi, ma ciò che diventiamo quando ci mettiamo in azione», conclude con foga ideale, molto bostoniana.
Lo dice però alzando il tono della voce, come avrebbe fatto una donna della Frontiera. I castori dell’Oregon, tipini che da millenni insegnano al mondo come si possano fare grandi cose insieme, approverebbero senz’altro. Poi si ritufferebbero in acqua.

Ritornando a lavorare.

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