Controstorie

La metropoli che impara a fermarsi con il rosso

Dopo decenni di guerre civili nel Paese africano spuntano i primi semafori. E la folla li fotografa

di Andrea Cuomo

F elicità è un semaforo acceso. Anche giallo. Perfino rosso. A Freetown, capitale della Sierra Leone, da qualche tempo è come se fosse un interminabile Natale tropicale, con quelle tre luci colorate che si accendono e cambiano colore come insensate luminarie agli angoli di alcune strade. E quindi i cittadini si fanno fotografare lì, con l'aria beota che hanno sempre quelli che vengono fotografati vicino a qualcosa di nuovo e di strano. «È stato come un sogno quando mi sono svegliata una mattina e ho trovato per strada una serie di luci con tre colori - ha raccontato ancora turbata al Concord Times, uno dei principali quotidiani locali, Mabinty Turay, una donna d'affari -. Ho chiesto a tutti che luce fosse quella ma per tutti noi era la prima volta che la vedevamo. Un mio amico è accorso da un'altra parte della città apposta per vedere quell'affare e ha ipotizzato che fosse stato messo là dal governo per abbellire la strada».

Scene di ordinario sbigottimento stradale a Freetown dove, come in tutta la Sierra Leone, i semafori non sapevano nemmeno cosa fossero. Decenni fa, nel corso degli anni Ottanta e poi dei Novanta, quei pochi che c'erano erano stati distrutti o rubati nel succedersi di colpi di stato, guerre civili, disordini che avevano insanguinato il Paese. D'altronde in Sierra Leone ancora nei primi anni Duemila spadroneggiava il Ruf, il fronte rivoluzionario unito che aveva cercato di abbattere il potere consolidato in nome di un generico populismo per instaurare il quale non aveva esitato a ingaggiare soldati bambini, come raccontato dal documentario Blood Diamond, del 2006.

Dopo la guerra civile i semafori spariti non erano mai stati sostituiti, perché c'era sempre qualche cosa di più urgente per cui spendere i pochi soldi disponibili. Una decina di anni fa perfino l'Onu, per voce del suo rappresentante a Freetown, aveva caldeggiato il ritorno degli indicatori luminosi come simbolo di progresso e sicurezza nel piccolo Paese atlantico. Un progetto c'era pure e prevedeva l'installazione di semafori alimentati dal sole, merce che là non manca di certo, che sarebbero costati 80mila dollari. Ma spesso i sogni più ambiziosi sono i primi a fallire.

E così fino a qualche mese fa il traffico a Freetown si autoregolava. Più o meno. Con tanti incidenti, meno comunque di quanto ci si aspetterebbe nell'anarchia stradale, ma solo grazie a quel sesto senso che è optional indispensabile nelle aree del mondo in cui guidare non è una competenza necessaria ma una prova muscolare. Del resto il traffico in quella città di poco più di un milione di abitanti, un sesto dell'intero Paese, è un incubo allucinato e pieno di colori. Van, auto scassate e gonfie di antiche glorie occidentali, mototaxi sfrecciano quasi senza regole dribblando buche e pedoni, occupando ogni spazio anche dove non c'è, all'insegna della legge della giungla, ché chi arretra è destinato a soccombere. A cercare di dare una logica a qualcosa di informe fino a qualche mese fa c'erano solo i vigili, a volte abulici, altre volte aggressivi, con un bastone in mano a minacciare chiunque non rispetti le regole.

Già, i vigili. Non sono amati in nessuno cantuccio del mondo. Ma da quelle parti sono secondo la vulgata particolarmente corrotti e violenti. Non c'è quasi nessuno tra i sierraleonesi che non abbia avuto nella vita almeno una disavventura con qualche graduato della polizia municipale che ricatta chi cade nelle sue grinfie con il pretesto di infrazioni stradali spesso inventate di sana pianta, e minaccia di portarlo alla centrale solo allo scopo di vedersi allungare una mancia nella spiegazzata valuta locale. Un malvezzo ammesso indirettamente perfino da un portavoce del presidente Ernest Bai Koroma: «La polizia stradale è percepita come molto corrotta e se coi semafori limitiamo il contatto umano nei servizi stradali, ci saranno meno problemi».

Così immaginate il sollievo dei sierraleonesi ansiosi di liberarsi delle angherie dei vigili. I primi impianti sono stati acquistati da un'azienda specializzata croata, la Elektromodul Promet di Osjiek, e installati nel trafficato Congo Cross e a Brooksfield, nell'area Ovest della capitale, quella piena di ambasciate e aziende straniere. Per molte settimane i semafori hanno funzionato soltanto in via sperimentale, e per lo più lampeggiavano di giallo. Ma già questa era una meraviglia per i cittadini di Freetown. Poi è incominciato l'esercizio vero e proprio e tutti, automobilisti, motociclisti e pedoni e prima di tutto gli ineffabili agenti della Slp (Sierra Leone Police), sono stati rieducati. Può sembrare assurdo a noi, ma nessuno a Freetown sapeva che con il rosso bisogna fermarsi, con il verde si può procedere e che il giallo vuol dire che sta per arrivare il rosso e quindi occorre fermarsi o togliersi di mezzo in fretta. Il governo ha distribuito dépliant per spiegare la faccenda, i bambini che attraversano le strade per andare a scuola hanno capito prima di tutti il meccanismo e si sono disposti in nugoli chiassosi ad attendere il verde in riva alle strisce pedonali.

Insomma, il semaforo sta diventando un simbolo di progresso (per quanto da modernariato) per un Paese che, dopo decenni di tormenti, riscopre la pace e la voglia di crescere (l'economia fa registrare mediamente un +5 per cento all'anno dalla fine della guerra). La strada verso la gloria della Sierra Leone è lunga.

Ma finalmente anche là sanno quando fermarsi e quando andare avanti.

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