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Il miglior giornalista dell’anno? Un passante di Teheran

Il prestigioso Polk Award all'anonimo che ha ripreso la morte della giovane iraniana Neda, uccisa negli scontri di piazza a Teheran il 21 giugno 2009

Il miglior giornalista dell’anno? Un passante di Teheran

Il giornalista più bravo dell’anno non è un giornalista, ma un oscuro cittadino di Teheran. A sceglierlo sono stati i giurati del George Polk Award, premio giornalistico poco conosciuto in Italia ma considerato negli Usa pari al Pulitzer. Per la prima volta nella storia il riconoscimento è andato a un autore anonimo: a essere premiato è stato il video che mostra la morte di Neda, la giovane uccisa dalle milizie degli ayatollah durante una manifestazione di protesta, un’immagine diventata l’icona della resistenza iraniana. «Nel mondo di oggi un coraggioso passante con un telefonino può usare i siti per la condivisione di immagini e quelli di social-networking per diffondere notizie», spiega la motivazione del riconoscimento attribuito dall’Università di Long Island.

In poche righe è un manifesto e al tempo stesso una consacrazione del cosiddetto «citizen journalism» (giornalismo dei cittadini o giornalismo partecipativo), il nuovo verbo dei media internazionali che si basa su un semplice assunto: le tecnologie digitali hanno abbattuto la tradizionale struttura verticale per cui erano i giornalisti chiusi nelle loro redazioni a distribuire al pubblico dei lettori le notizie. Oggi il percorso è orizzontale e si svolge attraverso i blog, i siti o i servizi fondati sulla partecipazione dei navigatori (del tipo di wikipedia) o quelli per la comunicazione online (Facebook o Twitter). Quanto ai giornalisti vecchio stampo, ha scritto un ex direttore dell’Associated Press, si adeguino e tengano ben presente una novità: «L’informazione come lezione sta lasciando spazio all’informazione come conversazione». E tanto per mettere in guardia i professionisti del settore la più recente e approfondita analisi sul tema (Ultime notizie, di Massimo Gaggi e Marco Bardazzi) contiene nel titolo un aggettivo che sembra alludere al doloroso fine corsa di un’intera categoria.

In realtà le cose sono come al solito più complicate e meno nette. A dimostrarlo è lo stesso premio intitolato a George Polk: su 13 riconoscimenti 12 sono andati al giornalismo di una volta: reportage di politica estera, inchieste su malaffare e malapolitica nel solco dei tradizionali muckrackers (scavatori di fango) americani. Il nuovo giornalismo sembra dunque destinato ad affiancarsi a quello vecchio e a mutarne alcune caratteristiche senza ucciderlo. E la collaborazione tra le due facce dei media può a volte essere più che fruttuosa. Di recente il britannico Telegraph ha fatto scoppiare lo scandalo delle note-spese truccate da parte dei deputati. Per esaminare decine di migliaia di pagine di resoconti contabili il giornale ha fatto ricorso al cosiddetto «crowdsourcing», chiedendo l’aiuto di centinaia di lettori che online si sono presi la briga di fare le pulci al proprio deputato contribuendo all’inchiesta.

Nella babele di fonti, dati e informazioni in cui oggi ci si trova a vivere il bisogno di chiavi di lettura e approfondimenti non sembra destinato a venire meno. Fortunatamente per il futuro di una società che, senza voci in grado di consolidare una consapevolezza collettiva, rischia la frammentazione nelle mille tribù dell’era digitale. Ben vengano dunque siti, diari online, servizi di istant messaging e chi più ne ha più ne metta. Per i giornali oggi il problema, a dir la verità non trascurabile, è solo quello dei soldi. Il 95% delle notizie che circolano in rete, ha scritto di recente il direttore della Stampa Mario Calabresi, arriva dai media tradizionali. Che di questa attività di ricerca sostengono tutti i costi. Quanto ai ricavi se li prende qualcun altro.

Come Google insegna.

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